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Fuoco cammina con me. I festival del futuro a Kilowatt Festival

Il seminario è un occasione per ripensare all’identità del festival come pratica di una collettività e luogo di porte aperte e ribellione

16 minuti di lettura

Cortona è diventata il pittoresco mondo di Kilowatt Festival Eccesso di Realtà dal 20 al 24 luglio, quest’anno ragionato e minuziosamente preparato per vivere anche la città del Signorelli, dopo la permanenza a San Sepolcro dal 12 al 16 luglio.

Il Festival, giunto alla ventesima edizione, ha vissuto il proprio giorno zero cortonese inaugurando con i direttori artistici Luca Ricci e Lucia Franchi il seminario internazionale curato da Rodolfo Sacchettini dal titolo Fuoco cammina con me, una tre giorni pensata e acutamente elaborata per vivere una dimensione tanto nazionale quanto internazionale, per fare circolare aria così da alimentare quel fuoco che riecheggiando nel titolo, dal film di David Lynch, prequel di Twin Peaks, divampi come monito, augurio, invito per un festival che sappia porsi su un crinale.

Nell’oscurità di un futuro passato, il mago desidera vedere. Non esiste che un’opportunità tra questo mondo e l’altro. Fuoco, cammina con me.

Eccesso di realtà è il manifesto dell’arte come possibilità e compito di rielaborare il reale, ripulirlo attraverso una raccolta, un raccoglimento e accoglienza che sappia fare la differenza nella realtà stessa, assumendosi la responsabilità della propria immondizia, per tornare alla natura. Dai versi di T. S. Eliot Eccesso di realtà diventa l’iconografia di una dinamica in atto tra il mare di rifiuti e l’ombra degli alberi, il festival come traghettatore di anime, verso una nuova consapevolezza etica, civile e politica attraverso l’impegno assiduo dell’ascolto, del confronto, della pratica condivisa della collaborazione.

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La potente tre giorni seminariale ha dato spazio e tempo alla dialettica sui festival in ottica nazionale e internazionale grazie a tavoli di lavoro che hanno permesso lo scambio di diversi punti di vista e attraverso l’azione critica, la possibilità di rielaborarli, appropriarsene.

Al netto della proliferazione dei festival, dai recenti dati sui finanziamenti del FUS a festival di teatro danza e circo, interrogarsi sulla natura dei festival è la conseguenza fisiologica dell’atto politico che li vede moltiplicati: è necessario assumere il festival come termometro interno del mondo delle arti performative, in grado di fornire quelle indicazioni fondamentali sul suo stato di salute in Italia e all’estero.

Questa impresa seminariale acutamente studiata dal suo curatore si è evoluta potenziandosi nel trascorrere delle intense giornate di lavoro grazie a un corpo dialogante caleidoscopico per autorevolezza e capacità. Kathrin Deventer (Secretary General EFA), Roberta Ferrresi (il Tamburo di Kattrin), Diego Vincenti (il Giorno, Hystrio), Tiziano Bonini (Università di Siena), Hanna Parry (Baltic Circle, Finlandia), Graziano Graziani (Radio3 Rai), Angela Forti (Teatroecritica), Milena Dragićević-Šešić (University of Belgrad, Serbia), Andres Neumann (Andres Neumann International), Maddalena Giovannelli (Università di Lugano), Donatella Orecchia (Università TorVergata, Roma), Job Rietvelt (Boulevard Festival, Olanda), Vittorio Iervese (Università di Modena), Lorenzo Donati (Università di Bologna), Francesco Brusa (Altre Velocità), Francesca Saturnino (Doppiozero), Valentina Valentini (Università La Sapienza, Roma), sono stati  keynote speakers e coordinatori di tavoli di lavoro suddivisi in capitoli seminariali impreziositi dalle presentazione di libri dei rispettivi autori: Sergio lo Gatto con Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità culturale (Bulzoni editore), Francesca D’Ippolito con Produrre teatro in Italia oggi, pratiche poetiche politiche (Dino Audino editore), Agnese Doria e Francesco Brusa con Crescere spettatori. Il teatro va a scuola (Luca Sossella Editore), Francesco Brusa, Nella Califano e Rodolfo Sacchettini con Arcipelago teatro ragazzi in Toscana (Cue Press), Oliviero Ponte di Pino e Giulia Alonzo con In giro per festival. Guida nomade agli eventi culturali (Altreconomia edizioni), Alessandra Ferraro e Pako Graziani con Attraversamenti Multipli 2001-2020.

I punti di vista si sono corroborati, incontrandosi e scontrandosi l’un l’altro, nel susseguirsi dialogico, in un’economia sapiente di coerenza e specificità dei temi attraversati e la forma mentis del seminario si è rivelata vincente: appiccare il fuoco della domanda, incitandola con l’analisi attenta degli esperti per poi godere di quel calore emanato, attorno a quello stesso fuoco, problematizzando le questioni sollevate nei tavoli di lavoro. Operatori riuniti e rimescolati nelle discussioni per misurarsi con la propria e l’altrui capacità di ascolto, non tanto per rispondere, quanto per imparare. La struttura dei tavoli di lavoro ha consentito la capacità di analisi e di sintesi, senza pretendere di esaurire la domanda ma con la volontà di mantenerla viva, accesa.

Cosa sono -diventati- i festival? Nell’ottica progettuale di cui gode da vent’anni Kilowatt festival la domanda sulla temporalità dei festival significa concepirli come luoghi dalle porte aperte. Il panorama d’azione diventa la rete dei festival nazionali e internazionali rispetto cui è lecito e doveroso chiedersi quale prospettiva assumano, così che la storia dei festival ne diventi indagine autentica e non sterile resoconto.

Chiedersi quali siano i nuovi festival ha acquisito il significato di ragionare sulla novità come generazione e rigenerazione, scoprendone i grovigli, suggestione icastica scelta dal libro di David Quammen L’albero intricato. Ragionare e assimilare uno spostamento genetico orizzontale con la messa in discussione del verticalismo darwiniano significa sostanziare la cultura come divenire delle contaminazioni dei comportamenti e non incappare nel rischio di presentare la realtà a compartimenti stagni, inframezzati da cesure, bensì creare lo spazio della Storia come costruzione continua.

Problematizzare la questione generazionale significa interpellare il nuovo e il giovane, sconfessandone o confermandone lo status di categorie merceologiche per potersi interrogare sulla sensatezza di un ricambio generazionale, anche a livello di gestione del potere. Se con Darwin nel secondo Ottocento nasce il concetto di gioventù, il focus dell’interrogativo generazionale oggi si incentra sulla rigenerazione nella misura in cui i festival sono riconosciuti in quanto soggetti dei processi di generazione.

Se storicamente i festival coincidono e danno eco agli slanci rivoluzionari, può avere un senso, una direzione nel reale una consolante dialettica tra trasgressione e normalizzazione? Quale rapporto può costituirsi tra i festival rispetto al nuovo, in che misura può comportare una prospettiva di cambiamento? Interrogarsi su come i giovani possano assumere posizioni di potere presuppone l’individuazione di chi siano i giovani, una particolare attenzione sulla loro formazione, rispetto alla sensatezza dell’ipotesi di un’impresa culturale in grado di dare continuità alla formazione stessa.  

Le dimensioni coinvolte negli interrogativi si sono interfacciate poliedricamente con l’arte, la politica, la società e un piano più strettamente linguistico e dunque comunicativo, per una narrazione dei festival non solipsisticamente ridotta ai tecnicismi ma autonoma, in grado di dettarsi la propria legge, in quanto frutto di una scelta consapevole, portatrice di una Weltanschauung che la collochi in un’ottica processuale e progettuale.   

L’orizzontalità dei processi di trasformazione, rispetto a un’ottica verticalista di salto generazionale, inconciliabile perché contradditoria rispetto a un paradigma di divenire continuo così come si propone la cultura si è poi concretizzata nell’incontro con i direttori di festival fondati dopo il 2010.

Il racconto del proprio festival ha saputo valicare l’autonarrazione nell’ottica di poter attivare pratiche di collaborazione, stimolare miglioramenti o evidenziare criticità, alla luce del rapporto imprescindibile tra festival e territorio in cui e per cui nasce.

Paradigmatico è stato il racconto di Dino Sommadossi, fondatore di Centrale Fies a Dro: la sua storia ormai quarantennale, la decisione di sapersi proporre in una nuova forma, suddivisa in più momenti dell’anno, il rapporto viscerale con il territorio da cui ha saputo attingere quella linfa vitale in grado di restituire una proposta artistica valida e innovativa perché a sua volta capace di riqualificare il territorio stesso, proponendolo come polo culturale, attento alla cura dell’artista e del pubblico, pensati nella collettività territoriale.  

Il Festival della Mente di Sarzana con la sua direttrice Benedetta Marietti ha stimolato il ragionamento verso possibili modalità di relazione tra festival e territorio, sconfessando l’invasione dell’esercito dei grandi nomi, optando per la coesistenza di una rassegna off di spettacoli e interventi specifici di esperti autorevoli. Costruire una rete tra le istituzioni culturali, coinvolgere le scuole superiori, scegliere giovani volontari sono stati stimoli pragmatici e praticabili per un festival e un territorio in grado di corrispondersi. Identificare il territorio significa riconoscere l’identità del festival rispetto al suo essere pubblico, dunque per un pubblico, partecipe tanto delle ragioni che lo generano quanto delle finalità.

Ragionare sulla partecipazione del pubblico seguendo la linea dialogica proposta tanto analitica quanto sintetica si è tradotto letteralmente nel prendere le parti del pubblico, lungi dal creare fantasie dai contorni sfumati di un pubblico fittizio, la costruzione immaginativa del pubblico si è concretizzata come momento dialettica tra ipotesi di accusa e conseguente difesa.

Quale fiducia si concretizza nel patto con il pubblico? Dove si colloca la scelta degli addetti ai lavori rispetto alla proposta per lo spettatore, se non si vuole incappare nell’arroganza di una decisione autoriferita e perciò ridondante? Interrogarsi sulla presunta passività del pubblico implica la domanda sull’offerta proposta: chiedersi chi sia lo spettatore implica riconoscersi in primis come tali; dunque, eliminare la dicotomia tra artista e pubblico e assumere insieme il compito di guardare quella crepa, stare su quel crinale, vivere reciprocamente un’opportunità tra questo mondo e l’altro.

Eliminare la frattura tra spettatore e pubblico concede altresì di considerare da un punto di vista sinottico il pubblico rispetto al non pubblico e domandarsi se il non pubblico non coincida forse con la cecità di un’indagine sul reale che colleziona dati di conferma, piuttosto che mirare a individuare fragilità di un territorio.

Lo strutturarsi del territorio italiano, la collocazione e il dilagare della provincia, il posto della periferia in tal modo diventano questioni primarie, prospettive sociali e politiche prima che descrizioni geografiche. Territorio, pubblico e festival non devono diventare i vertici di una triangolazione oscura attorno all’ego artistoide, piuttosto punti continui di una linea progettuale artistica, sociale e politica.

Constatare l’enorme proliferazione dei festival sul territorio nazionale è imprescindibile, ma insufficiente per capire la logica politica sottesa. Con l’intervento di Donatella Ferrante, membro del Consiglio Superiore dello Spettacolo, al netto della necessità e volontà di dare una risposta al periodo attraversato, il focus dell’interrogativo è stato centrato sulla qualità della proposta del festival stesso, sulla conseguente possibilità di discernere la novità dal rischio di estemporaneità, individuando quale sia e dove si collochi l’obiettivo del festival. La scelta di Kilowatt di proporsi nel territorio perché il territorio stesso potesse appropriarsene, in una circolarità virtuosa di autogenerazione -con la creazione del gruppo Visionari- ha saputo rispondere a una logica progettuale.

Il festival non può diventare una vetrina estiva dove trovare un seppur minimo, comunque proprio spazio, ma è il luogo cui gli artisti si rivolgono per poter creare, dove la possibilità è intrinsecamente legata alla progettualità necessaria alla creazione, così da conferirle realizzabilità e non ridurla a volatile ed effimero guizzo e sconfessare il rischio di appiattire lo spessore del festival nella mera conta degli spettatori presenti.

Nel costruirsi della dialettica seminariale, l’identità del festival si è progressivamente delineata come desiderio collettivo perché collante di un pubblico, inteso come pratica di una collettività che non ricerchi l’autonarrazione, bensì la cura degli artisti in un’ottica progettuale che sappia misurarsi con il territorio e le sue esigenze e potenzialità: ciò che la rende felicemente scevra dall’utopia è la dimensione fortemente affettiva, descrittiva, pragmatica e analitica in cui ha preso vita, nella circolarità esperienziale condivisa capace di alimentare la domande, di far circolare aria -non solo italiana- che mantenga il fuoco crepitante.

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Anastasia Ciocca

Instancabile sognatrice dal 1995, dopo il soggiorno universitario triennale nella Capitale, termina gli studi filosofici a Milano, dove vive la passione per il teatro, sperimentandone le infinite possibilità: spettatrice per diletto, critica all’occasione, autrice come aspirazione presente e futura.

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