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Al Kilowatt Festival l’urgenza (non si) cerca

(S)punti e appunti da Cortona

11 minuti di lettura

La direzione immaginativa della ventesima edizione di Kilowatt Festival è efficace e poetica: il mare di rifiuti lambisce una spiaggia sconfinata, spazio dell’umano, adombrato fortunatamente dalla natura. La realtà indifferenziata è esorbitante, eccessiva, forse insopportabile: è necessario un porto sicuro, uno spazio altro che sappia fare la differenza (e la differenziata!).

Spostarsi è una scelta improrogabile, implica la capacità critica tanto quanto l’urgenza pratica. L’artista si offre come mezzo di trasporto e guida, psicopompo controcorrente, per portarci nell’aldiqua, nel qui ed ora del possibile, dell’eterno presente dell’esperienza artistica. Il titolo di viaggio è per ognuno, non per chiunque, implica il coraggio di uscire dal proprio io in vista di un’ottica più ampia per prendere consapevolezza di ciò che realmente accade.

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Il Kilowatt Festival non può che amplificare questa dichiarazione artistica ed etica: tra circo, teatro, danza e musica, l’itinerario spaziotemporale delle giornate festivaliere è la traduzione in geografichese del percorso immaginativo intrapreso dalla creazione alla partecipazione critica di ogni singolo spettacolo, -senza incappare nel paradosso cartografico di borgesiana memoria!

Kilowatt Festival
Foto di Luca Del Pia

Il gruppo di ricerca romano Unterwasser con la produzione esecutiva di Pilar Ternera/NCT ricrea la spazialità dell’immaginazione attraverso la delicatezza poetica del dispositivo della scatola magica: il contenitore e il contenuto si propongono un gioco in continuo cambiamento.

Ora contenitore di ricordi, ora lente caleidoscopica, schermo televisivo o playstation ante litteram, l’anteprima Boxes di  e con Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti, Giulia De Canio e con Francesco Capponi è l’invito a saper modulare il proprio punto di vista, a regolare l’intensità della focalizzazione, a scegliere la leggerezza per partecipare al gioco immaginativo e non: ridimensionarsi, prendere familiarità con una geometria che non si addice alla proteiformità dell’umano per scoprire quanta umanità possa esserci tra gli spigoli di una scatola.

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Ripensare il compromesso relazionale non come rinuncia, ma come capacità, come unità di misura di un contenitore suggerisce l’adattamento come scoperta di un nuovo e impensabile spazio, esplorazione, conoscenza, dell’altro con cui incontrarsi, senza perdersi. I mondi possibili entrano nella scatola, ma c’è ancora spazio per chiunque voglia giocare con loro.

Kilowatt Festival
Foto di Elisa Nocentini

Il rapporto con lo spazio esplode la forma ludica nell’arte circense dei Carpa Diem, in un viaggio a tratti fiabesco dove l’abilita gioiosa di Katharina Gruener e Luca Sartor racconta la storia di un altrove dove il passare del tempo scandisce l’attesa. La magia è genuina, come solo può essere preparare il pane e farlo cuocere in forno.

Poeti del movimento e artigiani dell’immaginazione, i due protagonisti invitano lo spazio a giocare insieme a loro: propongono un altrove che è il pubblico e lentamente la storia di Vroni e Tullio è epica, è il quotidiano infantile di ognuno, racconto lo sbalordimento, la semplicità di ciò che accade.

In Doppiozero, una coproduzione Teatro Necessario con l’occhio esterno di Fabrizio Rosselli gli acrobati, -da ákros, estremo e baìno, camminare- danzano con eleganza l’abilità di camminare in punta di piedi, con delicatezza e allegria disegnano una parabola rovesciata, un sorriso, un’altalena, tra il mondo della finzione in cui non esiste la gravità, dove si pedala con le mani e si legge a testa in giù, incontrando lo sguardo di chi sta seduto e nella visione ci si avvicina lentamente a quel crinale di stupore, si apre lo spiraglio della scoperta come meraviglia.

Kilowatt Festival
Foto di Elisa Nocentini

L’urgenza dell’artista non è impulso nevrotico, la necessità di traghettarsi dal reale eccessivo a un possibile in grado di stimolare un’etica critica, che sappia riconoscere e fare la differenza può essere un richiamo che sorpassa la verbalità, moltiplicando i linguaggi come indizio di una pluralità di punti e modalità di avvio.

L’invito di partecipazione al pubblico può cogliere l’inizio della dinamica immaginativa inscrivendolo in processo mutante, in cui l’aspettativa non è la risposta dell’arrivo ma la modalità di prosecuzione del movimento: la danza tribale della compagnia Ivona di e con Pablo Girolami e con Guilherme Leal, Giacomo Tedeschi, Lou Thabart e Samuele Arisci intreccia lo spazio scenico in un panorama in evoluzione. I danzatori sono paesaggio e tempo che lo attraversa, prendono parola e vi si inscrivono dalle radici primordiali ai ritmi frenetici dell’imminente domani.

Con Manbuhsona una coproduzione Centro di produzione Twain-Tuscania, Festival Oriente Occidente/ CID Rovereto, Dancehauspiù, Amis du MDC- Melinda Stampfli Neuchâtel dal duo iniziale con Manbuhsa la compagnia si propone come comunità di cinque danzatori: la dinamica in atto di coro e corifeo scandisce uno scambio dialogico potente. Prendere parola è un atto muto che rimbomba nella risposta corporea dell’altro. La dimensione corale della danza suggerisce una comunicazione rivolta all’ascolto, allo sguardo. Nello scambio coreografico si realizza un viaggio temporale e spaziale ritmato dalla disponibilità ad accogliere l’altro, a cercare inevitabilmente insieme un nuovo punto di avvio nella condivisione di uno spazio che si riscopre nella reciprocità del movimento.

Kilowatt Festival
Foto di Elisa Nocentini

Lo spazio può cambiare nella misura in cui si colloca nella relazione tra chi lo vive: lo spazio inteso come forma, come condizione di possibilità c’è quando lo sfondo risale in superficie. L’arte che si propone come invito a muoversi, a eccedere consapevolmente l’eccesso di realtà, questiona lo spazio di riferimento di questa dinamica. Quali sono le modalità di relazione tali da consentire una risalita in superficie, una boccata d’ossigeno, dall’abisso dell’autoreferenzialità, in virtù di una leggerezza che non è superficialità ma possibilità di guardare le cose dall’alto?

L’eclettismo e l’ironia ipnotica della compagnia francese Monad, composta dai giocolieri Cyrille Humen e Van-Kim Tran e dall’organizzatrice Corentine Poncet, propone una spirale magnetica in cui la relazione con l’altro vive è una danza mirabolante che si colloca in un’atmosfera da trance, una fuga dal reale per planare in un mondo rotante in cui l’insensatezza delle azioni scontra il paradosso della loro manifestata dichiarabilità. Durante Yin con la regia di Eric Longequel, direzione tecnica di Paul Roussier e configurazione di Sylvain Quément/Gangpol e Stèphan Laporte, la percezione cambia perché cambiano le regole del gioco relazionale e l’unico dettame è la rotazione, forse metafora di una continuità sottesa, sostanziale.

La realtà è sconfessata e ricreata in una coreografia che travalica a sua volta l’eccesso, proponendolo attraverso la giocoleria in una climax ascendente che esplode nel non-sense, reinventando una direzionalità circolare. L’urgenza della ricerca di senso diventa la sorprendente consapevolezza del disincantamento, dell’illusione dichiarata che si ribalta in una disillusa lucidità.

Affrontare l’urgenza, assumerla come responsabilità di azione e non come declinazione fuorviante della frenesia significa proporre un incontro con l’altro che sappia prendere l’iniziativa, più che attendere l’inizio. L’urgenza è il motore dell’azione, ciò che la mantiene viva, non è la scusante a posteriori di un impulso. Gli artisti e il pubblico si incontrano nell’urgenza che vivono, non la ricercano come legittimazione, ma se ne servono come faro per illuminare il percorso immaginativo.

Partecipare a Kilowatt Festival è concedersi il privilegio di prendere parte, rispondere a un invito creativo e critico. Le proposte artistiche si sono alternate dispiegandosi in una cornice variopinta, gli operatori, gli artisti, i critici hanno incontrano i cittadini e i turisti, (ri)conoscendo negli spettacoli il pubblico non come entità terza, destinatario numerico di un mittente interessato alla sua quantità, ma come medesima condizione condivisa, pubblica.

Il festival non è luogo dell’inizio di una kermesse di esibizioni, che demanda ad un dopo indefinito una prosecuzione, una bolla temporale di breve seppur magnifica durata, ma ha realtà come inizio, ingresso in un luogo della mente e del cuore, in cui accade la consapevolezza condivisa dell’urgenza, è l’urgenza stessa di ricerca: pur in cammino perenne non si abbandoni quel luogo, quella condizione affettiva, ma lo si tenga accanto come il migliore e fidato compagno di viaggio artistico, sociale, politico, etico, quotidiano.

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Anastasia Ciocca

Instancabile sognatrice dal 1995, dopo il soggiorno universitario triennale nella Capitale, termina gli studi filosofici a Milano, dove vive la passione per il teatro, sperimentandone le infinite possibilità: spettatrice per diletto, critica all’occasione, autrice come aspirazione presente e futura.

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