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Gusto giorgio agamben

Che cos’è bello? Su «Gusto» di Giorgio Agamben

Lo chiamiamo in causa per sigillare, compattare e tenere insieme un discorso che sembra impossibile. Ma che cos’è il «gusto»? Nel suo saggio, Agamben prova a rispondere a questa domanda.

11 minuti di lettura

Ogni persona si è trovata, almeno una volta nella vita, a discutere di un prodotto artistico; sia esso un quadro, una canzone o un film. Spesso, rimaniamo colpiti da chi non condivide la nostra opinione in materia. Quando veniamo contraddetti sulla bellezza di un’opera in noi sorge un certo senso di opposizione che ci porta a dibatterne la validità contro coloro che la deprezzano e la svalutano. Solitamente, stremati dallo scontro argomentativo e d’innanzi all’impossibilità di trovare una misura comune fra noi e l’interlocutore, preferiamo portare la conversazione verso altri lidi marchiando il tema con la massima latina «De gustibus non est disputandum». Proprio qui, però, deve iniziare la riflessione: che cos’è questo «gusto» che chiamiamo in causa per sigillare, compattare e tenere insieme un discorso che, a tutti gli effetti, sembra impossibile? Su questo punto si è interrogato Giorgio Agamben in un testo tanto agile quanto incisivo intitolato, con estrema semplicità, Gusto (Quodlibet, 2015).

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Platone e la frattura bellezza-verità

La ragione del fallimento del dibattito simulato in precedenza è da ricercarsi nel fatto che «verità e bellezza sono originariamente scisse» (ivi., p. 13) fin dai tempi di Platone. L’antico filosofo chiamava in causa l’amore (Eros) e gli attribuiva il compito di costituire un nesso in grado di garantire, al contempo, l’unità e la differenza della bellezza e della verità. Agamben ci informa di questo doppio movimento di unità-differenza ricordandoci lo iato che Platone pone fra verità e bellezza nelle pagine del VII libro della Repubblica, ove si afferma che chi cerca il vero scoppierebbe a ridere d’innanzi all’idea di rintracciarlo nel bello. Così, siamo nella condizione in cui «la bellezza non può essere conosciuta, la verità non può essere vista» (ivi., pp. 18-19); in questa prospettiva l’idea, intesa come «atto supremo della conoscenza» (ibidem), vive nella frattura che Eros tenta di tenere unita senza abolire la differenza fra i due antipodi. Questa eredità platonica graverà sull’intera eredità culturale occidentale, fino a manifestarsi in maniera portentosa nella modernità.

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Gusto moderno

L’itinerario che porta al moderno concetto di «gusto» è gravido di questa eredità platonica gnoseologico-metafisica; parte dalla fine del XVI secolo e si snoda attraverso numerosi autori come Campanella e Cartesio per conoscere, nel XVIII secolo, un salto qualitativo. Tre lampanti formulazioni illuministe gettano luce sull’eredità metafisica del concetto di gusto: Montesquieu identifica un «non so che» che forma l’attrattiva invisibile e inesplicabile delle cose e delle persone; Diderot definirà il bello come «la pura idea di relazione in sé e per sé, il puro rimandare di una cosa all’altra» (ivi., p. 38) e lo qualificherà come «puro significante» ovvero «indipendente da ogni significato concreto» (ibidem); infine, Winckelmann, parlerà della bellezza come Unbezeichnung ovvero «assenza di significato». 

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Cosa vuole comunicare al lettore Giorgio Agamben nel momento in cui traccia questa storia del gusto? Che nell’epoca moderna il bello diviene un «significante eccedente» (ivi., p. 34) a cui il gusto sta in rapporto come «pura significazione» (ibidem). Tutto diviene più chiaro quando Agamben passa ad analizzare la terza critica di Kant che raccoglie e riunisce le diverse formulazioni settecentesche e le struttura con chiarezza. Secondo il filosofo di Königsberg la facoltà di giudizio è fondata su «un concetto con cui non si conosce nulla» (citato in ivi., p. 38), essa è un vero e proprio enigma. Da un lato ci viene presentata una conoscenza che non conosce nulla e rimanda ad un piacere; dall’altra vi è un piacere che non viene goduto ma che si presenta come sapere

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Non è un caso che questa intera struttura ci appaia come oscura e indecifrabile. Giorgio Agamben, infatti, ci sta indicando un autentico gioco di specchi al cuore della gnoseologia e dell’estetica occidentale, «l’ideale di un sapere che si presenta come la conoscenza più piena nell’istante stesso in cui se ne sottolinea l’impossibilità» (ivi., p, 41). Tentare di cogliere a pieno questo processo in uno schema, immagine o – come si è detto prima – concetto, risulta impossibile.

Conseguenza delle scissione: astronomia, economia, psicanalisi

In seguito, Giorgio Agamben riapplica quanto visto allo sviluppo della scienza e degli altri saperi occidentali. Ripartendo da dove si sono prese le mosse, da Platone e dal libro VII della Repubblica, Agamben indica nello spacco epistemico che separa astronomia e astrologia una separazione fra scienze moderne (ovvero «scienze» propriamente dette) e scienze divinatorie. Queste ultime occupano lo spazio lasciato libero dal significante eccedente – trattato in precedenza – e formano il residuo delle scienze pure «che si fondano sull’adeguazione del significante e del significato» (ivi., p. 48). A partire dal XVII le scienze divinatorie abbandonano progressivamente il terreno della conoscenza a spese della scienza moderna; tuttavia, ci informa Giorgio Agamben, sorge una nuova scienza che -sebbene non possa essere definita divinatoria – occupa comunque quello spazio del «non so che» e del gusto che il Seicento e il Settecento consacrano a criterio fondamentale del gusto; questa è l’economia politica. Non è un caso che il grande economista-filosofo Marx, trattando del valore di scambio, riprenda il concetto di «bello disinteressato» da Kant e che Simmel definisca il denaro nella medesima maniera che Diderot riserva al bello («pura relazione senza contenuto»). 

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D’altronde, conclude Giorgio Agamben, questa «enigmatica complicità» era già stata intuita da Mallarmé: «estetica ed economia politica, homo aestheticus e homo œconomicus, sono, in un certo senso, le due metà, le due frazioni che il gusto aveva cercato per l’ultima volta di tenere unite nell’esperienza» (ivi., p. 52). Constatiamo, dunque, che il tentativo del gusto, inteso come facoltà o concetto, di tenere unita la scissione bellezza-verità si è arenato in una nuova scissione. Nel tentativo di richiudere la nuova spaccatura numerose altre scienze sono sorte appoggiandosi a schemi simili e, prontamente, naufragando. È il caso della psicanalisi e della linguistica, due scienze che, instaurandosi nello iato fra estetica ed economia, hanno prodotto una nuova cesura, questa volta fra il soggetto e l’Altro, inteso come esterno al soggetto della conoscenza. Alla luce di ciò «non è […] sorprendente che l’uomo moderno riesca sempre meno a padroneggiare un sapere e un piacere che, in misura crescente, non gli appartengono» (ivi., p. 56).

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Conclusione: ritorno a Platone

D’innanzi a questa nuova scissione siamo richiamati, scrive Agamben in Gusto, al «senso del progetto greco di una filo-sofia» (ivi., p. 57) ovvero di un sapere che non appartiene più né al soggetto né all’Altro ma si situa nella frattura che li divide. Ritorna qui il programma platonico di un sapere in cui verità e bellezza comunicano, che l’antico ateniese identificava in Eros. Oggi, «il mitologema di Eros è necessariamente iscritto nel destino della filosofia occidentale» (ivi., pp. 57-58) come possibilità di pensare al di là delle ripetute scissioni che Agamben ha indicato. Perseguendo costantemente il principio secondo cui «la bellezza deve salvare la verità e la verità deve salvare la bellezza. In questa duplice salvazione si compie la conoscenza» (ibidem).

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Immagine di copertina da Pinterest

Giovanni Soda

Classe 2000, ho rinunciato a studiare finanza per fare filosofia, sogno di scrivere per vivere e sono fermamente convinto che concetti, idee e pensieri di ieri riescano a spiegare il mondo di oggi meglio di quanto facciamo noi.

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