Il secondo piano della Casa Museo Hendrik Christian Andersen, nel cuore di Roma, ospita l’ultima retrospettiva del maestro siciliano Giuseppe Modica, tra i più rappresentativi esponenti di una nuova metafisica, Rotte mediterranee e visione circolare, a cura di Maria Giuseppina di Monte e Gabriele Simongini, visitabile dal 23 aprile al 15 settembre 2024.
L’evento è realizzato nell’ambito del progetto Giuseppe Modica. Rotte mediterranee, sostenuto dal PAC 2022-2023 Piano per l’Arte Contemporanea, promosso dalla Direzione Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.
Ampi spazi, vedute marine e raffinati giochi di luce accoglieranno il visitatore che si troverà immerso nelle atmosfere enigmatiche e sospese nel tempo del pittore di Mazara del Vallo, che con grande disponibilità si è raccontato a Frammenti Rivista, guidandoci alla scoperta della mostra e toccando temi di grande attualità.
Dalla crescente instabilità politica, alle migrazioni (solo evocate, mai mostrate direttamente). L’arte di Modica non è didascalica, suggerisce ma non indica, si nutre di assenze che si colmano di significati e riferimenti e, soprattutto, ricerca la Bellezza che, come sottolinea lo storico dell’arte Salvatore Settis, «non salverà il mondo se non siamo noi a salvarla». E si può affermare che Giuseppe Modica il suo contributo lo abbia dato.
A tu per tu con l’artista: conversazione con Giuseppe Modica
Non è la prima volta che Lei espone alla casa Museo Hendrik Christian Andersen, che nel 2021 ha ospitato la mostra Atelier, una mostra trasversale che ha coperto oltre un trentennio di attività artistica, dal 1990 al 2021. Esiste un fil rouge che lega la precedente esposizione a Rotte Mediterranee e visione circolare?
Sì, tre anni fa il tema era quello dell’atelier, il luogo dove mi ritrovo per meditare e riflettere, ma anche il luogo dove memorie, annotazioni e riflessioni prendono nuova forma e diventano pensiero visivo. Il Mar Mediterraneo per me è sempre stato legato alla memoria della prima infanzia che caratterizza il nostro immaginario visivo. L’amico fotografo Ferdinando Scianna dice che ognuno di noi si porta dietro il proprio villaggio della memoria e che in qualsiasi parte del mondo andiamo, guardiamo attraverso quel villaggio della memoria. Naturalmente, oggi lo sguardo sul Mediterraneo non può non tenere in considerazione le tristi vicende che affliggono la nostra contemporaneità.
A proposito del rapporto con la Sicilia, che ha sempre avuto un’anima complessa e sfaccettata, Lei in quale anima della Sicilia si riconosce di più?
La Sicilia, come ha sottolineato lo scrittore Dominique Fernandez, ha varie sfaccettature, è prismatica e contraddittoria. Esiste sicuramente una Sicilia barocca, esuberante, colorata e folkloristica, così come esiste una Sicilia più contemplativa e silente, nella quale mi riconosco maggiormente. Le mie radici siciliane, anche in relazione a quanto detto prima, hanno dato un’impronta al mio sentire ed immaginare. Come dico spesso, esistono tre memorie: personale, culturale e antropologica; queste tre memorie costituiscono il baricentro sul quale si organizza l’immaginario ed il pensiero visivo. La memoria legata all’infanzia è ciò che si è vissuto fino ai 10 anni, e questo, dicono gli studiosi della psiche umana, ha impressionato in maniera indelebile, ha strutturato e caratterizzato, dando un’identità precisa. Poi c’è una memoria antropologica, quella tramandata dalla tua gente, dalla tua terra; e poi una memoria culturale che è quella delle acquisizioni degli studi, delle passioni. È un’osmosi di queste tre memorie a creare quel baricentro di riferimento che è centro propulsore della creatività.
Parlando della Sicilia, viene in mente il rapporto con il grande scrittore siciliano Leonardo Sciascia, che di Lei ha scritto sul Corriere della Sera negli anni ‘80: «Grande sensibilità, grande perizia». Cosa può dirmi di questo incontro?
Ho conosciuto Leonardo Sciascia nell’86, all’età di 33 anni, e siamo entrati subito in sintonia. Allora abitavo a Firenze, esponevo in una galleria siciliana e Sciascia acquistò un mio quadro – era anche un collezionista – e disse alla gallerista che voleva conoscermi. Lei mi telefonò e io presi subito l’aereo per andare a incontrarlo. Fu una grande emozione. Purtroppo, la nostra frequentazione è durata solo tre anni perché lui è venuto a mancare nell’89. Se lo avessi conosciuto prima forse non si sarebbe creato questo impatto favorevole, perché nell’86 avevo già acquisito una forza e una maturità espressiva che hanno suscitato il suo interesse. Sciascia scrisse un articolo sul Corriere della Sera nel quale sottolineava l’uso della luce, una luce mutevole e cangiante, e osservava che nelle strutture rappresentate nei quadri, tracce di Un’archeologia del futuro, le abrasioni della materia non erano solo attraversate da segni del tempo, ma rimandavano ad accadimenti enigmatici provocati dall’uomo e a conflittualità di tipo civile.
Ho potuto incontrare Leonardo Sciascia solo altre cinque o sei volte in quei tre anni. Sono andato anche a trovarlo nella sua casa in collina nelle campagne di Racalmuto, dove amava rifugiarsi. Era un’impresa raggiungerlo poiché non avendo là il telefono, si doveva ricorrere ai telegrammi, e così potevano passare anche quindici giorni prima di riuscire ad organizzare l’incontro. Anche raggiungere la casa non fu facile: non avevamo un indirizzo preciso perché è una località in mezzo alla campagna e i pastori che abbiamo incontrato erano restii a dare informazioni, vuoi per diffidenza nei confronti degli «stranieri», vuoi per una sorta di protezione nei confronti di Sciascia. Finalmente uno di essi, che lo chiamò «Nanà» segno di una conoscenza assidua, con un sorriso aperto ci diede le giuste indicazioni. Quando finalmente riuscimmo a trovare la casa, Sciascia e la signora Maria, sua moglie, ci accolsero con cordialità nella terrazza, offrendo caffè e bibite e mentre conversavamo con lui i nipoti, allora bambini, giocavano intorno a noi. Ancora oggi sono in contatto con loro e con tutta la famiglia Sciascia.
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Un altro scrittore di impegno civile che si è interessato al suo lavoro è stato Antonio Tabucchi che ha scritto un racconto, Le vacanze di Bernardo Soares, ispirato a tre sue acqueforti.
L’ultimo incontro con Sciascia è avvenuto a Milano, nel mese di giugno del 1989, qualche tempo prima della sua morte. Era ricoverato in ospedale, ma gli era consentito trasferirsi di giorno all’hotel Manzoni per stare con la moglie Maria e vedere gli amici, che andavano a trovarlo. Tra questi il fotografo Ferdinando Scianna, suo grande amico, Franco Sciardelli editore e Domenico Porzio critico letterario. In quell’occasione gli ho portato una delle mie incisioni, La terrazza di Pessoa, che lui ha apprezzato molto ed ha suggerito a me e all’editore Sciardelli, lì presente, di fare una cartella di incisioni in omaggio a Pessoa della quale lui avrebbe fatto la presentazione. Purtroppo, Sciascia morì poco dopo e non vide la realizzazione della cartella. Comunque, sia io che Sciardelli decidemmo di onorare il suo desiderio e portammo avanti la sua idea. Non essendoci più Leonardo Sciascia, ho pensato che la persona più idonea per la presentazione della cartella fosse lo scrittore Antonio Tabucchi, il maggiore divulgatore e traduttore di Fernando Pessoa in Italia e in Europa. Lo incontrai nella sua casa di Vecchiano. Mi disse che avrebbe potuto inventare un racconto e non scrivere un testo critico che non era nel suo “ruolo”: «Io sono uno scrittore – disse – non un critico d’arte». Quindi ha inventato il racconto Le vacanze di Bernardo Soares, che è uno degli eteronimi di Pessoa, avendo come riferimento le tre incisioni della cartella ed una serie di immagini della mia pittura. Ne è nata una pubblicazione singolare.
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Secondo lei oggi è venuto meno il rapporto tra letteratura e arte? Non mi vengono in mente grandi scrittori che si interessano e magari patrocinano il lavoro di giovani artisti.
Sì, ma vede, Sciascia era un caso particolare, ha sempre avuto una grande sensibilità artistica. Era Direttore di una rivista, Galleria, che, nel corso di oltre 40 anni di attività, ha pubblicato numeri monografici dedicati non solo a letterati ma anche ad artisti, come Emilio Greco, Renato Guttuso, Piero Guccione, Bruno Caruso, Fabrizio Clerici, oltre a collaborare con grandi critici di arte come Giuliano Briganti, Maurizio Fagiolo dell’Arco e Roberto Longhi. Oggi questo fenomeno è molto più raro e la tensione ideale fra scrittori, critici e artisti si è allentata.
Torniamo alla mostra. Le venti opere esposte sono tutte inedite e realizzate in anni recenti?
Sì, le opere in mostra sono tutte inedite eccetto le due, ovvero Rifrazioni. Atelier del 2020 e Melanconia e Mediterraneo. Visione circolare del 2017, risultate vincitrici del concorso bandito dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della cultura nell’ambito del progetto PAC 2022-2023 (piano per l’arte contemporanea), ed acquisite dal Museo, entrando a far parte della sua collezione permanente. L’arco temporale di realizzazione delle opere è dunque circoscritto tra il 2017 e il 2024.
Per quanto riguarda il tema della mostra, Rotte mediterranee e visione circolare, uno dei curatori, Gabriele Simongini, ha parlato di «mare monstrum» in riferimento alla tragedia del Mediterraneo e ai numerosi naufragi che si sono succeduti nell’ultimo decennio. Secondo lei, quale può essere l’approccio di un artista rispetto alle grandi questioni del nostro secolo, quale può essere appunto il tema delle migrazioni?
Ogni artista è sempre sensibile e ricettivo nei confronti degli accadimenti del proprio tempo, che quindi entrano in maniera più o meno diretta nel suo lavoro. Nel mio caso, non posso fare a meno di essere osservatore attento della realtà che mi circonda: non posso vedere il Mediterraneo come se fosse un mare “turistico“ e basta, o come un’“Arcadia mitica“ sospesa nel tempo, senza quelle fenomenologie che oggi sono abbastanza preoccupanti, come quella dei disperati che scappano dalle coste africane per arrivare in Italia e in Europa e vanno incontro alla morte, per non parlare poi dei conflitti in atto che aggiungono un ulteriore elemento di inquietudine.
In mostra è esposta una serie di dipinti, ovvero Navi da guerra in transito n.1, n.2 e n.3, dove la presenza disturbante delle navi da guerra funge da contrappunto all’apparente serenità del Mediterraneo.
Questi sono i segni del nostro tempo, anche se l’obiettivo di un artista non è quello di fare un lavoro giornalistico, di mera denuncia. Perlomeno questo non è il mio obiettivo; tuttavia, nel mio lavoro si riflette anche un’inquietudine di tipo civile.
Ma, alla fine, quello che mi interessa sempre, al di là delle problematiche civili e sociali, è la ricerca di una essenzialità formale del linguaggio pittorico, che insegue una visione circolare di luce-buio, interno-esterno, pieno-vuoto, che «intercetta le geometrie dell’aria e prospettive di luce» come acutamente dice Gabriele Simongini.
È un tema molto attuale, visto che i conflitti purtroppo si moltiplicano anziché estinguersi, così come le numerose tragedie a cui siamo sempre più assuefatti. È anche il tema di uno dei quadri più significativi esposti in mostra, Le Rotte della Tragedia.
Vede, in questo quadro ho inserito delle macchie di ossidazione che, oltre ad essere elemento strutturale della mia pittura in quanto suggeriscono spazialità e ritmo, contengono anche numeri: i numeri dei morti in mare che riempiono giornalmente la cronaca, numeri impressionati e martellanti: 215, 318, 123… Segni numerici che ci ricordano che dietro ognuno di loro ci sono storie di uomini, donne e bambini di cui nessuno sa niente.
È vero, abbiamo una visione parziale e forse edulcorata della tragedia. Nelle Rotte della Tragedia lei ha scelto di inserire anche dei teschi.
Sì, il teschio è una vanitas, un simbolo classico della caducità della vita, mai come in questo caso così pertinente. Inoltre, come vede, c’è una cartina geografica dell’Africa e della Sicilia, chiaramente si vedono ribaltate, sia perché le guardiamo come se fossimo allo specchio, ma soprattutto perché è ribaltato il senso della Storia: questi accadimenti sono così inaccettabili per una società civile, non dovrebbe essere un problema nazionalistico, ma un’emergenza affrontata a livello planetario.
Il tema dell’attualità è presente anche in un’altra tela, Fiat Pax, dove si intravede una bandiera della pace.
Sì, Fiat Pax è stato realizzato in un momento particolare, all’inizio del 2022, in concomitanza con lo scoppio della guerra in Ucraina. L’opera è stata scelta da Gianluigi Colin per la copertina de La Lettura, inserto culturale del Corriere della Sera, nella domenica di Pasqua del 2022.
Per quanto riguarda invece l’utilizzo del colore, c’è una predominanza del blu che può avere varie valenze: può essere il colore della tristezza, della melanconia, ma anche il colore della meditazione. Per lei qual è la valenza di questo colore?
Molti mi fanno questa domanda perché ho sempre avuto una dominante blu nella mia tavolozza. Per me è il colore del Mediterraneo, del mare e dell’atmosfera: l’atmosfera si tinge di blu man mano che ci si allontana verso l’infinito. Inoltre, è un colore che, se messo in relazione con altri, come il rosso, l’arancione e il blu, accende e illumina la tavolozza, le conferisce forza, luce, tensione magnetica e dinamica.
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Le andrebbe di raccontarmi i suoi esordi di giovane artista e le difficoltà che ha incontrato? Lei inizialmente ha studiato alla Facoltà di Architettura, per poi trasferirsi a Firenze per studiare all’Accademia delle Belle Arti. In che modo è stato influenzato dalla sua formazione universitaria e accademica?
Ho iniziato con Architettura per due motivi: c’erano materie interessanti dal punto di vista culturale, come letteratura artistica e composizione architettonica, che erano importanti per la mia formazione di pittore, perché io già sapevo di voler fare il pittore e non l’architetto. Poi i miei genitori avevano piacere che conseguissi una laurea in Architettura per avere qualcosa di più certo e stabile e poi potermi dedicare in un secondo tempo alla pittura. Ho sostenuto venti esami, accantonando materie più pratiche come Scienza delle Costruzioni e Analisi, poiché già sapevo che non sarei diventato architetto.
È stata comunque un’esperienza incredibilmente formativa. Ho avuto ottimi docenti che alimentavano un vivace scambio culturale, come Marcello Fagiolo dell’Arco, fratello di Maurizio, grande storico dell’architettura con cui poi sono diventato amico negli anni, e Adolfo Natalini, uno degli iniziatori dell’architettura radicale. In seguito, mi sono iscritto all’Accademia di Belle Arti di Firenze che dava la preziosa opportunità di esercitarsi con il disegno dal vero. L’Accademia aveva laboratori interessanti e ottimi docenti.
Gli anni a Firenze, dal ‘73 all’86, sono stati fondamentali. Firenze è una città interessante: essendo una città piccola potevi agevolmente visitare musei come la Galleria degli Uffizi e il Museo del Bargello, e poi naturalmente le architetture civili e religiose e tutte le straordinarie testimonianze degli artisti toscani, da Masaccio a Piero della Francesca.
A proposito di Piero della Francesca, la critica lo ha spesso citato come uno dei suoi punti di riferimento. Il lavoro del critico è quello di andare a ricercare ascendenze anche lontane dal punto di vista spaziale e temporale.
Sì, le origini dell’arte italiana vedono protagoniste figure come Giotto e Piero della Francesca. È risaputo che Firenze detiene il primato del disegno, mentre Venezia del colore. Essermi formato a Firenze mi ha dato un’impronta ben precisa per quanto riguarda la strutturazione dello spazio; se avessi studiato a Venezia o a Roma probabilmente avrei avuto un’altra indicazione di linguaggio.
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Quindi tre città, tre momenti diversi della sua vita: l’infanzia e l’adolescenza a Mazara del Vallo, la giovinezza a Firenze, la maturità a Roma, dove lei vive da diversi anni. Che rapporto ha con questa città?
Vivo a Roma dall’86, è una città che mi è sempre piaciuta, di grande valore culturale e affasciante per via di tutte le sue stratificazioni. Dal secondo dopoguerra in poi è stata teatro di un vivace dibattito: oltre che crocevia delle arti, ha ospitato artisti provenienti da importanti centri artistici come Londra e New York. Oggi pare abbia perso un po’ della sua influenza a livello internazionale, ma comunque rimane un centro attivo e di riferimento.
Lei è stato titolare della Cattedra di Pittura all’Accademia delle Belle Arti di Roma. In che modo l’insegnamento e il rapporto con gli studenti l’ha arricchita?
Gli anni di insegnamento all’Accademia di Roma sono stati anni di grande soddisfazione perché si era creato un rapporto sinergico con gli studenti, di reciproco arricchimento culturale. Sa, gli studenti vengono da tutte le parti del mondo, ognuno di loro ha le sue memorie personali e il suo specifico background, e questo mi ha aiutato molto a conoscerli, sia da un punto di vista personale che della loro identità culturale. E quindi c’è stato uno scambio ed una crescita reciproca.
Cosa significa per lei dipingere e perché tanti di noi sentono l’esigenza di esprimersi da un punto di vista artistico?
L’atto del dipingere è qualcosa di primigenio, di vitale, profondamente connaturato all’uomo; basti pensare che sin dalla preistoria l’uomo ha sentito l’esigenza di realizzare graffiti nelle caverne. È la testimonianza più vera dell’espressività di ogni epoca.
È una bella definizione. Un’altra domanda: lei spesso inserisce nei suoi dipinti degli strumenti che in qualche modo facilitano lo sguardo, come delle superfici specchianti o delle macchine fotografiche. Quale è il ruolo della visione, dello sguardo, nei suoi dipinti?
Direi che la pittura stessa è uno specchio: incarna in sé superficie e profondità, come lo specchio che è costituito da una lastra specchiante e da una realtà riflessa. La stessa cosa vale per la pittura: ha una superfice dove avviene una stesura di colore che identifica una spazialità bidimensionale e uno spazio prospettico della profondità generato da ciò che il pittore vi immette attraverso la sua immaginazione. La macchina fotografica è un personaggio, un interlocutore che intercetta lo sguardo del fruitore e lo tira dentro, creando una circolarità della visione tra interno ed esterno.
Invece, per quello che riguarda la ricezione delle sue opere, ho la sensazione che ognuno di noi possa vederci qualcosa di diverso: personalmente, percepisco una sensazione di sospensione del tempo, una temporalità in cui non c’è né passato né futuro ma si vive nel presente, quindi una sensazione di tranquillità. Invece, leggendo alcune critiche, molti sottolineano più l’aspetto della melanconia, una sorta di tristezza. Secondo lei da cosa dipende? Ognuno legge l’opera in base alla propria sensibilità?
Le opere sono contenitori aperti che ospitano lo sguardo e che ognuno riempie e completa con il proprio vissuto. La melanconia è legata alla sua accezione dureriana, quella evocata dalla celebre incisione quattrocentesca di Albrecht Durer. La melanconia, nella sua accezione simbolica, assume varie forme: il cubo, il dodecaedro, la sfera, la scala, l’angelo pensante, ecc. La melanconia esiste come dimensione speculativa del pensiero: dove non c’è pensiero non c’è melanconia, insomma è meditazione e contemplazione. E non necessariamente deve essere tristezza.
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Stavo notando anche le diverse dimensioni dei suoi dipinti. Molti sono di grandi dimensioni, ma lei lavora anche su piccole tele, come ad esempio Alternanza Luce e Buio, dove è presente anche la cupola sferica che tanto caratterizza l’architettura religiosa islamica siciliana.
Sì, io lavoro sulle grandi dimensioni, ma anche il quadro piccolo non è mai da considerarsi minore o poco significativo. In Alternanza Luce e Buio è evidente una memoria islamica fortemente presente nella Sicilia sudoccidentale, da Palermo a Mazara del Vallo. Un artista si porta sempre dietro le sue memorie personali e territoriali che influenzano inevitabilmente il suo immaginario.
Un’ultima domanda: come mai la figura umana non è quasi mai presente nella sua pittura?
Molti anni fa c’era qualche presenza umana, ma da una ventina d’anni a questa parte sento il desiderio di abolire la presenza umana, e questa assenza è così persistente che richiama il suo contrario: la presenza. L’assenza inquieta è una mancanza che fa cercare il suo contrario e ti fa interrogare sulla presenza. Nella psicanalisi di Jacques Lacan l’assenza richiama inevitabilmente la presenza, e la ricerca di ciò che è assente è il motore della vita.
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