Venerdì 25 novembre si concluderà la mostra Jus d’Orange presso la Fondazione ICA Milano, progetto espositivo nato dalla creazione dell’omonimo libro d’artista realizzato dalla critica d’arte e scrittrice australiana Estelle Hoy in collaborazione con l’artista francese Camille Henrot. In vista del termine di questa esperienza, le autrici di Jus d’Orange hanno risposto ad alcune domande sul processo creativo e comunicativo che ha portato alla nascita del progetto.
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Il nucleo di questo progetto è stato un testo scritto da Estelle Hoy, intitolato Venetian Waters of Jus d’Orange. L’arancia è un elemento molto presente anche nell’opera di Camille Henrot; è apparsa anche nella realizzazione del video di Grosse fatigue, vincitore del Leone d’Argento alla Biennale di Venezia nel 2013. Avete condiviso questo concetto metaforico oppure una di voi ha tratto ispirazione dall’altra? Inoltre, potrebbe sembrare una domanda banale, perché avete scelto entrambe le arance?
Estelle Hoy: «Questa è un’ottima osservazione e no, non è affatto per caso! Quando ho guardato il corto Grosse Fatigue, una sorta di torpore si è impadronito di me, e la visione di queste arance che rotolavano svogliatamente è diventato qualcosa a cui mi aggrappavo, il mio nuovo amuleto. Dall’indolente rotolare delle arance, nasce una forma di tortura ma anche di rinascita, oserei dire, quasi come un’orgia sabbatica. I giorni di creazione di Jus d’Orange sono iniziati a Berlino, dove stavamo vivendo entrambe; una città dal passato oscuro costruita sulle proprie intricate divisioni. Quando parlo di oscurità, la intendo sia letteralmente che metaforicamente. I berlinesi sono davvero svantaggiati quando si tratta di qualsiasi cosa legata al sole, e la mancanza ed incostanza della luce, hanno scatenato una sorta di vorace ricerca di nuove forme di nutrimento. Stavano sperimentando il sapore del nulla (il Covid non è stato un fattore attenuante) e stavamo perdendo l’amore per la vita. La generosa produzione di opere di Camille è diventata per me una vitamina e la forma di sostentamento di cui avevo disperatamente bisogno. Le arance erano diventate una metafora del sole, e viceversa; non pensi Camille?»
Camille Henrot: «Sì, penso che Estelle abbia recuperato l’elemento dell’arancia dal mio film Grosse Fatigue e lo abbia dispiegato, ne abbia srotolato la buccia come una pergamena, ampliandone il significato. L’arancia era diventata il sole che entrambe rimpiangevamo nella grigia Berlino, una sorta di asprezza spiritosa che rende lo zucchero saporito. Quando penso al tono, allo spirito, alla melodia della scrittura di Estelle, la rapporto ad un sapore molto simile: dolce ed aspro, ironico ma gentile. Noi siamo cresciute affascinate dalle arance anche grazie ad Hélène Cixous. Il suo libro Vivre l’orange è stata una grande consolazione per me, dopo averlo scoperto a Berlino durante la pandemia. In questo libro, Hélène Cixous associa le arance alla donna, e l’aranceto a una sorta di comunità. Attraverso i nostri numerosi scambi di messaggi di testo, c’era anche uno scambio di fluidi energetici; tanto che Estelle, ad un certo punto, mi aveva soprannominata “Vitamina C”. L’arancia rossa (letteralmente blood orange, in inglese) inoltre, porta con sé l’associazione con il sangue, il vampiro, la ricerca disperata di una sostanza, l’estrazione. La parola Orange con una lettera in meno è orage, che significa tempesta in francese, e che può perfino evolvere in:
Ô rage ! Ô désespoir ! Ô vieillesse ennemie !»
Oh rabbia! Oh disperazione! Oh vecchiezza nemica!
(monologo di Don Diego, da “Il Cid” di Corneille, atto I scena quarta)
L’idea di creare un libro d’artista era presente fin dall’inizio?
Camille Henrot: «Quando ci siamo incontrate, la nostra amicizia ha portato da subito nuova creatività. Mi sentivo molto stimolata, spinta, quasi intossicata dalla scrittura di Estelle. È stato come innamorarsi. Comunicavamo soprattutto in forma scritta a causa dell’emergenza sanitaria. C’era un’opprimente sensazione di isolamento ed impotenza. Nel bel mezzo della crisi, ci lasciavamo semplicemente andare all’entusiasmo di avere uno scambio di parole con una nuova amica. All’inizio di tutto… è semplicemente successo. Estelle mi inviava i testi che scriveva, ispirata dalle nostre conversazioni, e io disegnavo con le sue parole in testa. Siamo entrambe molto impulsive, sensibili ed un po’ frenetiche, oserei dire. Queste caratteristiche, che a volte complicano le collaborazioni con altre persone, sono state esattamente ciò che ha reso il nostro gioco libero e divertente. Estelle ha scelto un’idea tra i venti disegni che le inviavo ogni giorno tramite WhatsApp ed io sceglievo una frase tra le sue cinquanta righe di giochi di parole tra i cento messaggi che ci scambiavamo. Tra di noi non c’erano né forzature né pressioni ad essere costanti nel lavoro. Per me è stato come una meravigliosa corsa in libertà. Come due vampire, ci nutrivamo l’una dell’altra. E dopo che mi sono nuovamente trasferita a New York, la distanza ed il fuso orario hanno reso tutto ancora più semplice. Mi svegliavo con un sacco di messaggi da parte di Estelle, perché lei era già sveglia da alcune ore e poi di pomeriggio mi prendevo un momento per disegnare e dipingere, quando in Europa era già passata la mezzanotte. Non è mai stato didascalico o forzato, grazie alla quantità di scelta che ci davamo e al numero di direzioni possibili che potevamo entrambe dare al nostro lavoro. Ad un certo punto abbiamo capito che un libro sarebbe stato un buon formato per la nostra collaborazione, ed è stato sviluppato diventando una mostra, grazie alla passione per il nostro progetto da parte della curatrice della Fondazione ICA di Milano Chiara Nuzzi, nonché all’interesse della Fondazione ICA per i libri d’artista».
Estelle Hoy: «È divertente perché quando penso agli ultimi anni, non ci siamo mai ufficialmente sedute ad un tavolo discutendo le nostre idee su un progetto o una direzione di lavoro specifica. Penso che in modo orgiastico abbiamo assaggiato le identità di nuove metafore e abbiamo abbattuto i muri dell’arte. Vedo il nostro risultato artistico come una scalata verticale piuttosto che una propagazione orizzontale, un intorpidimento per la mancanza di ossigeno in altitudine. Si può trovare ogni tipo di ispirazione nella privazione».
Per il cortometraggio Grosse Fatigue stavi lavorando su un’ampia scala metaforica: riflettendo sulla creazione dell’universo, parlavi del frenetico flusso ininterrotto delle immagini trasmesso attraverso i media. Qual è il rapporto fra questo lavoro e Jus d’Orange?
Camille Henrot: «Jus d’Orange è correlato a Grosse Fatigue in quanto suo opposto. A prima vista, Jus d’Orange è un progetto molto personale che non ambisce ad esprimere una dichiarazione sulla cultura. Entrambi i progetti nascono da una profonda delusione per il mondo e da un trauma personale ancora più profondo. Tuttavia, come in un sogno, le cose si manifestano con immagini misteriose ed inquietanti, creando connessioni indirette: la mente cerca di dire quello che sta provando a nascondere. Sia Grosse Fatigue che Jus d’Orange sono animati da un movimento conflittuale di botta e risposta, una frenetica attrazione per vedere, fare, produrre, e al contempo da un profondo disgusto per ciò che viene creato: una paura di essere fraintesi, la vanità della creazione in un mondo di ingiustizie e conflitti, e il desiderio di ritirarsi da tutto ciò».
Mi piacerebbe saperne di più sul processo di creazione di un opera d’arte realizzata da un duo.
Estelle Hoy: «Il processo di creazione è stato continuamente condiviso tra di noi: uno scambio quotidiano tramite i social, i messaggi lasciati in segretaria o le conversazioni delle nostre idee, di testi ed immagini, finiti o meno che fossero. Lavorare con Camille è come lavorare con una specie diversa, fatta di sale e di un’insana curiosità, quindi, è giusto dire che amo tutto ciò che si dissolve, che si conserva e che è curioso. Lavoriamo entrambe freneticamente ed in modo prolifico, ma c’è anche un impegno paziente e duraturo nel pensarci artisticamente e filosoficamente in anticipo, un fulgido impegno».
Camille Henrot: «La nostra comunicazione era molto intuitiva, quasi telepatica in un certo modo. Anche se veniamo da famiglie, paesi e culture molto diverse, la nostra connessione è molto naturale, a volte nemmeno necessita di parole. Dal mio punto di vista, Estelle dava un nome alle cose che non ero mai riuscita ad identificare. Quando ho letto per la prima volta i suoi testi, mi è sembrata un’estensione del mio stesso pensiero. Non c’era un processo di correzione reciproca, anche se ci diciamo cosa ci piace di più e cosa ci piace di meno; nonostante siamo entrambe piuttosto fluide nel nostro processo creativo, questo non è mai stato un problema. Nessuna di noi due lo ha mai percepito come un attacco all’ego dell’altra perché proponiamo così tante direzioni diverse e nulla era imposto unilateralmente. Inoltre, molto spesso ci siamo trovate d’accordo!».
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Quando ho sentito per la prima volta parlare della vostra esposizione presso Fondazione ICA Milano, mi è venuto subito in mente un altro progetto editoriale sviluppato nel 2016 dalle artiste Stefanie Posavec e Giorgia Lupi, Dear Data. Stefanie Posavec e Giorgia Lupi realizzavano settimanalmente un diagramma su un argomento diverso ma molto comune (ad esempio, quante volte facevano la spesa in sette giorni) e si inviavano a vicenda una cartolina. Il vostro progetto è molto diverso, ma penso che il concetto di comunicazione non verbale sia di fondamentale importanza in entrambi i progetti. Siete d’accordo, o la comunicazione verbale (ad esempio per telefono) è stata essenziale per creare Jus d’Orange?
Estelle Hoy: «Sono pienamente d’accordo! Sono cresciuta nella comunità dei segni e sono sempre stata profondamente affascinata dalla comunicazione non verbale fin dalla nascita. Mio figlio di quattro anni aveva solo il 30 per cento dell’udito fino a marzo scorso, quindi, sono profondamente consapevole delle difficoltà dell’apprendimento di un linguaggio. Pensa solo a quanto possa essere stato difficile imparare l’inglese o il tedesco con una grave perdita dell’udito e con le maschere anti-covid che hanno coperto ogni bocca per diversi anni! La mia osservazione riguarda più il metodo che la sordità. Non si tratta di una relazione di inaccessibilità, dipendenza, o di passaggio di un messaggio da entità udenti ad entità non udenti. Il mio interesse per la sordità e la comunicazione non verbale è nato dalle pulsazioni, dalle vibrazioni della lingua dei segni (con cui sono cresciuta), che è molto impegnativa e tutto tranne che non vocalizzata. In realtà, la lingua dei segni è spesso accompagnata da un ritmo forte, variabile, simile allo staccato nel linguaggio musicale, il che non è così evidente per chi non è mai stato vicino a persone sorde. Parlare il linguaggio dei segni ed osservare la lingua dei segni è qualcosa di particolare: prima di tutto, una sfida di “durata” perché le parole sono libere da “battute musicali” regolari o irregolari. La lingua dei segni introduce la presenza di una molteplicità di battute diverse e non comunicanti. Mi interessano la cadenza metrica, le oscillazioni e i ritmi non retrogradi (sempre dal punto di vista musicale). In secondo luogo, l’AUSLAN (Australian Sign Language) e l’ASL (American Sign Language) sono notevolmente diverse fra loro. Almeno secondo me. Ad esempio, il primo si basa su un alfabeto a due mani mentre il secondo si basa su un alfabeto ad una mano, quindi c’è una radicale incoerenza e comunicare non è sempre possibile (o desiderabile, ma questa è un’altra storia). Ci sono poi i pionieri dell’indeterminatezza e delle non convenzioni, come John Milton Cage Jr., con la sua musica elettroacustica del dopoguerra e l’uso atipico degli strumenti. La mia metodologia di scrittura artistica gode di queste idee e sensazioni. Non so perché le persone siano così ostinate nell’aspettarsi di capire assolutamente tutto ciò che leggono e incontrano. Mi piace essere ingannata, confusa, presa in giro o lasciata nel buio. È divertente e provocatorio. E ovviamente, mi preoccupa profondamente chi può e chi non può, chi ha e chi non ha. Ma è tutto estremamente complesso. Jus d’Orange è solo uno dei modi in cui questa frammentazione si è manifestata. Camille, cosa ne pensi?».
Camille Henrot: «Sì, ero affascinata dalla comunicazione non verbale molto tempo prima che ci incontrassimo. Ho scritto un saggio intitolato Il Museo della Comunicazione Non Verbale per la rivista Paradis su invito di Donatien Grau. In realtà ho frainteso le condizioni dell’invito, in quanto lui mi aveva chiesto di scrivere sulle potenzialità dei musei, mentre io l’ho interpretata come una proposta per un museo che non esisteva. Sono affascinata dai fraintendimenti. La comunicazione verbale non era facile per me da bambina e la vita sociale era terrificante. Non ho avuto amici fino a quando non ho compiuto tredici anni. Quello che Estelle sta dicendo sulla sua esperienza con la lingua dei segni australiana mi tocca profondamente perché ero così timida che la gente mi chiedeva spesso: «Ti sei mangiata la lingua?». Mio nonno era un medico per persone con disabilità uditive; quindi mia nonna ci ricordava sempre quanto fossimo fortunate a poter sentire, ma allo stesso tempo non eravamo molto incoraggiate a parlare. Ora parlo in un’altra lingua e mi sembra più facile. È come vivere un’altra infanzia. Sto imparando e quando parlo è semplice e diretto, come se avessi di nuovo sette anni. Amo vivere a New York. Sono circondata da altri stranieri e qui i fraintendimenti sono la norma. Non c’è l’aspettativa che tu capisca sempre tutto. Il tempo e la velocità sciolgono e sfumano i contorni. In un mondo in cui i fraintendimenti sono così comuni, i codici della vita sociale si aprono e di conseguenza l’ansia sociale non ha motivo di esistere. Nessuno si adatta davvero e niente resta uguale. Ancora una volta, direi che la molteplicità, l’abbondanza e l’eccesso danno origine a un certo tipo di libertà (e costituiscono anche un certo tipo di fardello)».
Come ho scritto nel mio primo articolo, l’atmosfera nelle tue tele è tutt’altro che cupa, forse grazie all’ampio uso di toni caldi. La figura (semi)umana rappresentata sorride sempre. Nonostante i traumi subiti, la protagonista di Jus d’Orange sembra in grado di affrontare con serenità lo sguardo del visitatore. Cosa significa per te?
Camille Henrot: «Sì, è vero che nelle parole c’è a volte più disperazione che nei dipinti. Ho ricevuto commenti in passato sul contrasto tra i titoli e i dipinti, perché i titoli portano con sé molta disperazione e crudeltà, mentre le immagini sono più tenere, gioiose e dinamiche. Penso che l’emozione originale prima di lavorare sia talvolta alimentata dalla disperazione e, più spesso, dalla rabbia, poi mentre dipingo mi entusiasmo molto per la musica che sto ascoltando, mi ubriaco dei colori. Quindi lavoro su rabbia e tristezza, ma con gioia».
Per quanto riguarda il processo di scrittura, quali sono state le tue ispirazioni? Hai qualche riferimento filosofico o letterario particolare?
Estelle Hoy: «Al momento, la mia fonte di ispirazione è la scrittrice brasiliana Clarice Lispector, la cui ritualità senza confini mi ispira enormemente. Nel suo lavoro La passione secondo G.H., scrive:
Perché non dico semplicemente niente e guadagno tempo? Per paura. Ho bisogno di coraggio per creare qualcosa di concreto dal mio sentimento. È come avere una moneta e non sapere in quale paese è valuta legale
Penso che la valuta di Lispector sia la sua capacità di abbandonare le formalità; una campana a morto per molti lettori. Ma questa idea di rinunciare innanzitutto alle formalità mi tiene in vita, nella speranza di camminare verso la sua promettente follia nel mio lavoro. Se Dio vuole».
Qual è, secondo te, l’approccio migliore al tuo libro? Si dovrebbe leggere pagina per pagina o come un testo di aforismi?
Estelle Hoy: «Sento che sarebbe un grande disonore per i lettori suggerire loro come dovrebbero approcciarsi a questo libro d’artista. Ma muoio dalla voglia di vedere come lo faranno!».
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