Il 10 gennaio 1987 sul Corriere della Sera usciva un articolo che fece rumore – e tuttora continua a farlo – a firma di Leonardo Sciascia, intitolato I Professionisti dell’Antimafia. Nell’articolo si faceva esplicito riferimento a Paolo Borsellino; mentre un riferimento più velato, secondo molti, era indirizzato all’allora Sindaco di Palermo, Leoluca Orlando. Molti strumentalizzarono l’articolo, sostenendo che lo scrittore si fosse scagliato contro il Giudice e il Sindaco perché facevano della loro lotta alla mafia un mezzo per facilitare l’ascesa carrieristica. A detta di pochi invece lo scrittore si sarebbe lanciato in un’invettiva contro la retorica dell’antimafia, costituendo un esempio. Se si volesse criticare un Sindaco antimafia – perché la città puzza o le strade sono piene di buche – si passerebbe irrimediabilmente per mafiosi o per loro simpatizzanti.
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Anche Tano Grasso, Presidente della Fondazione Antiracket, dunque un “professionista dell’antimafia”, come lui stesso si definisce, perora la seconda ipotesi mostrando quanto Sciascia abbia colpito nel segno, soprattutto dopo i due attentati a Falcone e Borsellino. Certamente il riferimento a Borsellino nel testo è ingeneroso; ma tutti noi possiamo parlare col senno di poi, Sciascia invece morì nel novembre del 1989.
Nell’articolo Sciascia scriveva:
Ed è curioso che nell’attuale consapevolezza (preferibile senz’altro – anche se alluvionata di retorica – all’effettuale indifferenza di prima) confluiscano elementi di un confuso risentimento razziale nei riguardi della Sicilia, dei siciliani.
Aggiungeva inoltre:
Da tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.
e successivamente, in una intervista al TG2, dirà che:
In nome dell’antimafia si esercita una specie di terrorismo, perché chi dissente da certi metodi o da certe cose è subito accusato di essere un mafioso o un simpatizzante.
Il ruolo di un intellettuale non è quello di descrivere la società com’è oggi e basta, ma di descriverla senza trascurare le trasformazioni future, e in questo Sciascia, ora lo possiamo dire, è stato maestro.
Facendo un salto di esattamente 28 anni possiamo dire che ai nostri giorni la retorica antimafia è più martellante che mai, sebbene la mafia ormai da anni abbia cambiato strategia. Molti “professionisti dell’antimafia” oggi hanno delle posizioni affermate: siedono in Parlamento, scrivono libri, sono presidenti di associazioni antimafia, sono giornalisti, avvocati, giudici, sono membri delle forze dell’ordine, eccetera. Per alcuni la retorica dell’antimafia è una sorta di sponsor per fare carriera.
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Non tutti sono mossi da malafede, alcuni hanno trasformato la lotta alla mafia in una ideologia (“alluvionata di retorica” e mancante di spirito critico) che vede mafia ovunque e trasforma il mafioso in un demone e l’antimafioso in eroe. Spesso ripetono le solite formule (“Mafioso”, “colluso con la mafia”, “sistema mafioso”) con vigore e apparente sincera emotività. I “professionisti dell’antimafia” trasformano in mafia il lato primitivo di ognuno di noi – quello brutale, violento, aggressivo – che per il quieto vivere reprimiamo tutti.
Le mafie sono diventate così un insieme di mostri, assetati di denaro e potere: la mafia è l’immagine del male che proiettiamo catarticamente su di essa. Non ci appartiene. Eppure i mafiosi si muovono in mezzo a noi, ci stringono le mani, ci baciano, ci danno pacche sulle spalle, i mafiosi non frequentano soltanto mafiosi; i mafiosi frequentano gente come noi.
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Non è sbagliato dire che i mafiosi sono una parte di questa società. La stessa società che ha permesso ai “professionisti dell’antimafia” di proliferare indisturbati e indisturbabili. E ancora una volta non c’è che un solo colpevole: noi. Tutti noi. Ci sono due macrogruppi ed un terzo di piccole dimensioni. Il primo gruppo ritiene che l’importante è che di mafia se ne parli sempre. Non importa il come, il cosa e il chi. Se si parla di mafia è sempre bene, perché “bisogna conoscere certe cose”. Il secondo gruppo è quello più reticente o disilluso. “Ma tanto lo sanno tutti, è sempre stato così e sempre sarà”. Poi c’è la minoranza, quella a cui apparteneva Sciascia, che pensa che la mafia sia una cosa per mafiosi e l’antimafia sia una questione istituzionale. Non ci devono essere individui investigatori ma apparati investigativi.
Il dubbio: ma se in tutto il mondo le organizzazioni criminali si assomigliano e, sembra, abbiano tutte in comune l’indole umana che ne agevola la formazione e la definizione ideologica, perché non ritenerlo un semplice fatto umano da combattere, smettendola di creare mostri?
di Claudio Favara
[…] degli ultimi dieci anni: ci sono – difesi dal nome Adelphi, certificato di qualità – gli Sciascia e poi, qualche scaffale più in giù, i Fabio Volo; girandosi, ecco qualche titolo di cucina o di […]