monologo

Vivere nella propria testa: il monologo teatrale

Articolo della newsletter n. 50 - Maggio 2025

6 minuti di lettura

Vivere da soli è un’esperienza abbastanza universale, anche se non del tutto comune. Quando si va via di casa, soprattutto nel mondo di oggi e con le sue grandi difficoltà riguardo all’economia e alla situazione degli affitti in tutto il Paese, sembra impossibile tentare di cominciare una vita da soli. E magari nemmeno la si desidera. 

Ci si affida ai coinquilini, già conoscenti oppure ricercati, o si attende di andare a convivere con il proprio partner. Ma esistono anche miracoli per cui si riesce a trasferirsi da soli. 

Però vivere da soli non è solo un’esperienza fisica, “reale”, nel mondo in cui camminiamo e in cui spostiamo i mobili. Ci si può sentire soli, vivere soli, in mezzo alla gente, nella propria testa. E in casi estremi, si può arrivare a sperimentare entrambe le cose. 

Ma in che modo questo si lega al teatro? Questo è ciò che andremo a scoprire presto in questo articolo. 

Il monologo: esporre se stessi

In teatro esiste una “semplice” tecnica per comunicare, efficace quanto difficile da realizzare in modo che non risulti banale: il monologo

Nel monologo, solitamente, si vive nella propria testa: il pubblico può essere ignorato dal personaggio o essere l’unico confidente dei suoi pensieri. Un momento che il personaggio ritaglia per se stesso, chiuso nella sua testa, vivendo da solo nella sua mente

In quel momento parla e sente da solo, senza avere contatti con altri personaggi. Un attimo di solitudine, per ricercare se stessi e le proprie emozioni nel proprio io. Quell’attimo di pace e silenzio che, quando si vive da soli, può durare fin troppo, se non si sta attenti. Ci si isola, nella propria testa e nel proprio animo, cercando delle soluzioni fra i nostri pensieri. Come se sognassimo ad occhi aperti, nella realtà, in attimi in cui non ci si accorge veramente del mondo esterno. 

Quando vivi da solo, è questo il rischio in cui si può incorrere: guardare il mondo dall’esterno, senza esservi partecipe, chiuso nei propri pensieri, tra quelle quattro mura che sono solo per te. Quattro mura che ti proteggono, che possono accogliere chi sei davvero, ma che possono anche intrappolarti, in un mondo che vive solo lì dentro: in quelle quattro mura, quelle della tua casa e quelle della tua testa

Due movimenti opposti

Il monologo può evolversi nello stesso modo. Può essere un momento liberatorio, necessario per la crescita del personaggio, un modo per farlo sperimentare attraverso i suoi sentimenti e pensieri. Un attimo in cui parlare con se stesso, senza curarsi di ciò che deve dire o essere o pensare davanti agli altri.
Ma può anche essere un momento in cui il personaggio si isola, esule dalla vita cercando un modo per vivere solo nell’attimo in cui pensa. Allontanarsi dalla realtà e cercare rifugio nell’unica cosa che lo rassicura: se stesso. Perdersi nel proprio io per non dover affrontare l’esterno. 

Due movimenti, attivo e passivo, che si combattono per trovare un equilibrio. Un filo leggero tra la spinta liberatrice di un attimo di pace e il caos distruttore di un bisogno di evadere. 

La difficoltà tecnica del monologo

Ci sono stati casi in cui il monologo diventa il punto focale di uno spettacolo. Come detto precedentemente, questa tecnica può essere un’arma a doppio taglio. Prima di tutto, il monologo esula il resto della scena fermando tutto: il tempo della storia si ferma, si “dilata”, permettendo al personaggio di prendersi del tempo irreale in cui far sfociare i suoi pensieri. A volte il tempo scorre davvero sotto le sue parole, ma nel senso più classico del termine, il monologo implica uno stacco. 

In quel momento siamo soli con chi parla: può evitare il pubblico e rimanere da solo o rompere la quarta parete, rivolgendosi a un qualcuno non esistente in cui però lo spettatore si riconosce. La rottura della quarta parete, molto in voga sia in teatro ma soprattutto nel mondo dell’audiovisivo dopo il successo di Fleabagè estremamente difficile da ottenere senza risultare superficiale o cliché. Il pubblico deve sentirsi parte integrante del discorso, essere emotivamente coinvolto, lasciarsi trasportare e permettersi di sentirsi preso in causa. Smuoverlo a tal modo che basta una battuta del personaggio perché lo segua nel suo monologo. Qualcosa di molto difficile da fare, ma estremamente efficace e gratificante se si riesce ad ottenere. 

Una tecnica raffinata

Ci sono numerosissimi esempi, in Shakespeare prima di tutto, di monologhi di successo, ma la penna che li ha composti è fine e calcolata. Eppure, una volta eseguiti, diventano un piacere da guardare, assistere e partecipare. I migliori vengono riproposti e eseguiti da altri attori, diventano quasi uno spettacolo a sé stante, capace di intrattenere senza nemmeno aver bisogno del resto del contesto.

Il monologo diventa, quindi, anche genere oltre che tecnica. Qualcosa da affinare e continuare a raffinare perché sia perfetto. Lo sbaglio è dietro l’angolo, la noia e l’apatia sono conseguenze difficili da recuperare. Eppure, rimane forse una forma estremamente simbolica e affascinante, che viene ricercata e ricordata con grande fervore. Un bel monologo rimarrà per sempre nella mente di chi lo legge o di chi assiste alla sua decantazione. 

È qualcosa che sentiamo in noi stessi, quel desiderio di rimanere soli per un attimo, vivere da soli in quell’attimo, e lasciare che il resto del mondo non ci tocchi per esprimere ciò che sentiamo, ciò che siamo, ciò che viviamo. Per un attimo o poco più, senza dover tener conto di tutto il resto. 

Un mondo dentro il proprio monologo: il caso di Vanya

Veniamo, infine, a proporre un esempio pratico. Non i soliti monologhi shakespeariani o i classici del teatro che tutti conosciamo, ma qualcosa di nuovo. Uno spettacolo del National Theatre, che ha ottenuto anche diverse candidature ai più svariati premi teatrali anglofoni. 

Uno spettacolo di Anton Čechov. Se a primo acchito, ai più avvezzi alla drammaturgia di Anton Čechov può apparire assurdo è perché… lo è. Zio Vanya – e tutta la produzione del drammaturgo in generale – è sempre piena di personaggi diversi e complessi. Un continuo andirivieni che porta in scena situazioni complicate, spesso generazionali, con un cast folto e ben studiato. Qualcosa di difficile riproduzione tenendo il monologo come forma e genere prescelto. 

Invece, eccoci qua: Vanya, per la regia di Simon Stephens (già regista dell’adattamento di Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte), che da anni adatta le opere di Anton Čechov per il National Theatre. Un’opera che viene tramutata in un affascinante quanto complesso monologo portato magistralmente alla vita di un eccellente e sorprendente recitazione di Andrew Scott, famoso al grande pubblico per aver interpretato Moriarty in Sherlock BBC e l’“Hot Priest” in Fleabag. Parlando, infatti, di monologhi… 

Un eccellente esempio di monologo

Andrew Scott, da solo sul palco per quasi tre ore di spettacolo, regge un complicatissimo monologo, recitando ogni singola parte della drammaturgia in modo diverso, rappresentando con grande studio e complessità drammaturgica ogni singolo personaggio. Un’opera che vale la pena recuperare sulla piattaforma del teatro inglese, National Theatre at Home. 

È certamente uno spettacolo complesso da vedere, soprattutto se non si è mai letta l’opera originale, ma che consigliamo di recuperare anche per comprendere le vere potenzialità del monologo e le due spinte – liberatoria e distruttrice – di cui parlavamo prima. Un vivere da soli che si fa exempla massimo, dove Andrew Scott vive da solo in una casa e nella sua testa, interpretando un mondo intero fatto di persone e situazioni che esistono solo nell’attimo in cui le recita e niente più. 

Un monologo che vive da solo egli stesso, costruendosi in un mondo in cui quella storia dovrebbe accogliere più persone, ma che si rinchiude nelle quattro mura di un solo attore, che porta sulla sua schiena e sul suo talento uno spettacolo meraviglioso. 

La regia, a volte semplice quanto furba nel sapere gestire così tanti personaggi rilegati ad un solo corpo, aiuta ed esalta la bravura di Andrew Scott, così come la scenografia e lo schema delle luci scelto. Un’opera difficile che viene brillantemente eseguita per esaltare di più la sua forma drammaturgica.  

Un consiglio che vi lasciamo caldamente, un esempio magistrale per questo piccolo sguardo al monologo, che speriamo vi affascini e colpisca come l’ha fatto con noi. 


Illustrazione di Marco Brescianini

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Greta Mezzalira

Classe 1995, laureata in Filologia Moderna. Innamorata del teatro fin dalla prima visione di "Sogno di una notte di mezza estate" durante una gita scolastica. Amante di musical e di letteratura.

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