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Neuroscienza in teatro: «Recitare le emozioni» di Luca Spadaro

23 minuti di lettura

Per l’uscita del libro Recitare le emozioni – Nuove tecniche teatrali attraverso le neuroscienze, Dino Audino editore, abbiamo incontrato l’autore, attore e regista teatrale Luca Spadaro. Il libro propone delle basi teoriche rispetto alla manifestazione delle emozioni accanto a esercizi che permettono di riconoscerle e rappresentarle.

La genesi del libro

È nato prima il teatro o le neuroscienze? O meglio, come è arrivato ad avvicinare le due materie?

Sicuramente è nato prima il teatro, sia come esperienza che storicamente. La passione per le neuroscienze nasce dal fatto che leggendo certi libri ho riconosciuto dei meccanismi di lavoro che mi erano già noti e cari. Il primo libro neuroscientifico che ho letto è stato «So quel che fai – il cervello che agisce e i neuroni specchio» di Corrado Sinigaglia e Giacomo Rizzolatti. Non è stato difficile notare un’attinenza tra il mio lavoro e le neuroscienze. Quel libro, infatti, comincia con una citazione di Peter Brook che dice che le neuroscienze stanno scoprendo oggi quello che il teatro sapeva da sempre.

Dunque sì, è partito tutto dal teatro, ma le neuroscienze servono perché l’arte teatrale è praticamente priva di un’aritmetica: di elementi riconoscibili con cui misurare ciò che stiamo facendo rispetto a noi stessi e agli spettatori. Le neuroscienze, che ci permettono di misurare, osservare, soppesare una serie di attività, sono fondamentali. Eugenio Barba dice in un suo testo che le scienze sono la mitologia del teatro: danno un nome ai nostri sforzi che spesso non hanno nome.

Da cosa è partito questo libro?

Questo libro è partito da un altro libro: L’attore specchio, la mia agnizione con le neuroscienze, dove spiego il percorso fatto con la materia. Se rileggessimo alla luce delle neuroscienze i testi dei grandi maestri, vedremmo che ci sono delle intuizioni straordinarie che non hanno un linguaggio a sostenerle. Si parla di energia, sentimento, energia psichica; le parole si confondono perché la scienza non aveva gli strumenti per definire e sostenere le scoperte empiriche.

Scrivere L’attore specchio mi ha permesso di incontrare diverse persone, tra cui Marta Calbi, neuroscienziata e attrice, che si è occupata della parte scientifica del libro. Calbi mi ha fatto conoscere un mondo sommerso di testi scientifici in cui neuroscienziati, psicologi e neurologi studiano il soggetto attore proprio per scoprire meccanismi di funzionamento dell’essere umano. Quindi la scienza sta studiando il teatro molto di più di quanto il teatro stia studiando la scienza in questo momento.

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Teatro e scienza delle emozioni

Teatro e scienza o scienza a teatro? Il progetto Teatro e scienza è fare divulgazione scientifica attraverso il teatro o applicare la scienza al teatro?

Per quello che mi riguarda è usare la scienza per implementare e migliorare le nostre capacità artistiche. Diciamo che è una lunga tradizione: Stanislavskij, il primo regista moderno, si interessava molto di psicologia ottocentesca. Brecht era uno studioso di behaviourismo, psicologia, psicanalisi. Il fatto di cercare nelle scienze della propria epoca i meccanismi di funzionamento dell’artista teatrale non l’ho inventato io. A me interessa usare la scienza per approfondire le tecniche di lavoro. È fondamentale approfondire queste tematiche perché in teatro si usa il corpo, che è uno strumento di lavoro non mediato. Hanno strumenti mediati la musica, la pittura e le arti plastiche. La stessa percezione dello strumento è non mediata nel senso che quando si vede una forma d’arte di un corpo che agisce, il cervello reagisce ad essa come reagirebbe nella vita di tutti i giorni. A teatro non reagiamo come quando leggiamo un libro per cui dobbiamo avere delle conoscenze previe: alfabeto, sintassi, l’abitudine di tradurre delle parole in immagini.

Il teatro essendo non mediato – sia come strumento, sia come percezione – ha, secondo me, tantissimo bisogno della scienza per capire cosa ci accade. Marta Calbi mi raccontava un esperimento che ha fatto per cui scopriva accadimenti identici fra persone. Calbi ha notato che una delle cose che limita la conoscenza delle emozioni è il fatto che siamo tutti convinti che le emozioni siano soggettive. Non è così: le emozioni sono uno strumento della nostra specie, anche se è vero che cambia il modo in cui si manifestano a seconda della cultura, epoca, del nostro status sociale. Eppure, pur cambiando il perché e il come si manifestano le emozioni, l’impulso è sempre uguale.

È già interessante notare come attori che ci sono due elementi: un impulso identico come specie e una forma su cui si può lavorare per definire il personaggio.

Le emozioni dell’attore e quelle della persona

Si parla molto nel libro di corpo strumento dell’attore, le emozioni sono strumento o “prodotto” per l’attore?

Le emozioni sono strumento e prodotto. La regola fondamentale del teatro è «basta che funzioni». L’attore non deve emozionarsi, deve ricreare alcuni dei sintomi fisici di un’emozione per permettere a chi guarda di riconoscere quell’emozione, quell’elemento pre-razionale. L’attore e l’attrice devono trovare quegli strumenti per rendere realisticamente visibile in scena qualcosa che è un atto involontario. Dunque la cosa interessante è trovare la tecnica per fare accadere in chi guarda queste emozioni.

Chi lavora avrà uno strumento in più se avrà la sensibilità – cioè l’abitudine a una causa-effetto – di capire come un cambio di ritmo, di volume, di qualità trasforma i soggetti. Dice infatti Checov che accendendo una lampadina volontaria, tante altre lampadine involontarie si accenderanno per simpatia. Di conseguenza gli attori avranno un controllo maggiore di quello che fanno, ed è fondamentale perché serve mostrare un’emozione per raccontare una storia.

Il teatro è l’unico luogo dove guardiamo direttamente in faccia un’emozione, perché normalmente – e direi grazie a Dio – nella nostra vita sociale noi distogliamo lo sguardo dalle emozioni altrui. Non stiamo a fissare come dei guardoni. Distogliamo lo sguardo anche dalle nostre emozioni, non stiamo a fare le pulci alle nostre tristezze, alle nostre paure ed eccitazioni.

Alfabetizzazione emotiva

Parlando allora della vita sociale: perché è un imperativo sociale “l’espressione neutra” citata nel libro? Se le emozioni sono ciò che ci rende umani, perché noi ci priviamo di ciò che ci definisce come tali? Secondo lei, ovviamente

Questa è una domanda interessante, ma anche proprio sociologica perché credo cambi a seconda della regione del mondo in cui ci si trova. È vero che noi percepiamo le emozioni come qualcosa di dolorosamente intimo: l’emozione è una specie di tabù nella nostra cultura. È una specie di tabù perché è importante, se ne parla, se ne straparla però abbiamo una sorta di timore.

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Noi distogliamo lo sguardo se vediamo due persone che litigano o che si baciano: questa reazione è legata alla cultura. In Inghilterra e in Calabria le reazioni saranno molto diverse tra loro. Esistono le emozioni ma non sono osservate; ci manca un vero e proprio vocabolario. Un mio amico psicologo mi ha offerto questo termine: alfabetizzazione emotiva, cioè la capacità di definire un’emozione, di darle un nome e distinguerla da un’altra. Lo psicologo Paul Ekman dice che sappiamo molto di più dei tradimenti del nostro vicino, della nostra igiene dentale, più che delle nostre emozioni. Ekman dice che se dovessimo descrivere la nostra felicità non per metafore, ma per accadimenti, avremmo dei grossi problemi a farlo.

Non è così facile descrivere la nostra paura, felicità, e soprattutto descrivere le differenze con quelle degli altri. Non so dire perché e dove si crei questo tabù, sono certo però che andiamo a teatro e al cinema perché sono i posti in cui possiamo fare esperienza delle emozioni. Credo dunque sia importante avere cura delle emozioni, come attrici e come attori, dobbiamo saperle costruire per bene con tutte le loro sfumature e variazioni. C’è un libro interessante di Vicentini che parla delle ecoemotive, cioè sapere ricostruire come ci si sente subito dopo una grande manifestazione emotiva. Visto che il teatro è il posto dove possiamo fare esperienza delle emozioni, è fondamentale nell’etica di lavoro degli attori saperle mostrare con decisione.

Luca spadaro nel suo spettacolo «I danni del pomodoro»

L’autore specchio

Come si è sentito durante la stesura del libro? Come è stato porre una teoria per qualcosa che, come si dice nel testo, è molto corporeo e concreto?

La storia di questo libro è abbastanza lunga. Tutto inizia dal primo lockdown in cui mi sentivo con Daniele Vagnozzi e Marta Calbi per scambiarci articoli e libri. L’altra cosa interessante di questo libro è che nasce come un volume lungo il doppio. Per motivi editoriali mi hanno chiesto di asciugare, e il lavoro di asciugatura è stato interessantissimo perché mi ha costretto a trovare la sintesi. Mentre io scrivevo vivevo degli stati emotivi specifici, soprattutto all’inizio quando ho iniziato a comporre il libro. Vivevo tra l’ansia da prestazione, la fretta, la paura, la soddisfazione. Mi capitava spesso, in alcune parti poi tagliate del libro, di descrivere, mentre le esperivo, le emozioni che l’autore provava mentre scriveva.

Alcuni esempi che ci sono nella prima parte del libro come «La viaggiatrice addormentata» sono cose che mi sono accadute mentre scrivevo il libro. Infatti la cosa interessante che succedeva mentre scrivevo, leggevo e studiavo il libro, era che accadevano molte più cose legate al tema rispetto al solito. In verità semplicemente si è acuito il mio sguardo specifico. C’è poi da dire che io per il mio lavoro specifico già osservo le emozioni costantemente, soprattutto le mie. La gente quando faccio questo coming out [di osservatore delle proprie emozioni NDA] mi prende sempre per matto perché ad esempio quando mi arrabbio c’è sempre una parte del mio cervello che osserva cosa mi accade. Non vuol dire che recito la mia rabbia, però c’è una parte di me che fa una specie di scansione dei miei dati fisici. Scrivere questo libro ha fatto sì che questa cosa accadesse ancora di più assolutamente.

La pratica teatrale

Andando sul tecnico della pratica teatrale, sono molto curiose le sincinesie. Si dice che la domanda tipica dell’attore sia «perché?». Ci sono tanti gesti nella vita di tutti i giorni che non hanno un perché, come le sincinesie, in teatro come vengono gestite?

La cosa che gli attori chiedono «perché?» è fondamentale perché tante volte si confondono psicologia e neuroscienze, ma il «perché» per capire l’intenzione serve. Leggiamo in Rizzolatti che lo spettatore legge l’intenzione dell’attuazione, quel perché è una domanda semplicistica ma fondamentale. Molti registi chiedono di lasciar perdere la psicologia, ma la domanda è per l’intenzione con cui faccio un gesto. Leggendo il libro di Rizzolatti si viene a scoprire che quella domanda molto concreta deriva dalla sensazione dell’attore per cui se sa cosa sta facendo, allora potrà dare una forma leggibile all’emozione.

Le sincinesie, da quello che so io, non sono mai state studiate a teatro. Sicuramente qualcuno le ha studiate e io sono ignorante, però non è un tema che ho trovato in altri libri. Io le trovo interessantissime: dal gesto che si fa per pulire una cosa schifosa e la mano che non sta lavorando che si contrae e così via. Come per le emozioni, per le sincinesie io mi affido molto al trasformarle in azioni. Per la praticità delle azioni cito moltissimo il libro di Darwin L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali. In quel libro Darwin trasforma le emozioni in azioni fossili che non sono descritte con «fa quella faccia», ma con «inspira pronta a fuggire». Se io dico a un’attrice «carica le gambe perché tra poco dovrai scappare» l’attrice farà qualcosa di molto più concreto.

Nel lavoro sulle sincinesie quello che sto facendo è: quando sono intuitive cerco di riconoscerle e poi rifarle, fingere significa dare forma, dunque cerco di dare forma dopo averle riconosciute. Le sincinesie sono estremamente sottili, involontarie: una parte del corpo rivela qualcosa che il resto del corpo cerca di trattenere. L’esempio del vomito è chiaro: pulendo, tutto il corpo cerca di tenere, ma la mano libera, che non sta pulendo il vomito, mostra quello che tutto il resto del corpo cerca di trattenere. Negli esempi che ho fatto ho sempre cercato di proporre sempre un’azione concreta da fare prima a tutto volume e poi trattenuta, oppure spostata su una parte del corpo che non si vede di solito in primo piano.

La locandina di «Ceneri alle ceneri» di Harold Pinter con la regia di Luca Spadaro, prodotto da Teatro d’Emergenza

Nella stesura del libro è sorto il dubbio sull’argomento di «anomalie» emotive? Ad esempio patologie, casi limite che porterebbero le persone – e i personaggi – a vivere le emozioni in modo differente?

Nel grande mondo generico della follia il rischio dell’attore è quello di gigioneggiare. Nelle mie poche esperienze con persone con reazioni fuori scala rispetto ai normotipi, quello che ho visto è che cambia il motivo di ingaggio di un’emozione e cambia l’ampiezza, ma l’impulso è identico. Quello che secondo me va fatto è scegliere una sequenza coerente di regole del gioco. Vanno bene anche regole estremamente fisiche come dico nell’esempio dell’attrice che doveva fare il monologo da «Psicosi delle 4.48». Se ci pensiamo, ognuno di noi a volte nella vita sembra pazzo. Sembriamo pazzi quando il volume emotivo va oltre il livello normalmente consentito, in momenti di grande emotività. Oppure sembriamo pazzi quando la regola di ingaggio è strana per gli altri, tipo nel caso delle fobie: io conosco una persona che di fronte a un ragno ha delle reazioni fobiche tali per cui gli altri smettono di capirla. La cosa interessante è capire la sequenza di questa persona. Gli elementi della sequenza di per sé sono funzionali per ricostruire la fobia, che è concreta e reale.

Spesso quando si recita la follia si fanno cose non coerenti tra loro, ma la follia ha una sua coerenza interna. Senza voler essere degli psichiatri, quello che possiamo fare noi è cercare di capire la follia dandole organicità: l’impulso, la scala in cui si compie qualcosa. Non c’è molta differenza tra un’emozione e un’emozione fuori scala. Se vedessimo un funerale a Londra e uno a Palermo vedremmo che le persone si comportano in maniera diversa. Non c’è un giusto o uno sbagliato, l’impulso è lo stesso, cambia l’ampiezza emotiva mostrata.

È interessante che chi si occupa scientificamente di queste cose ci dice che ogni qualvolta si trattiene o si rimpicciolisce un’emozione si compie uno sforzo. Dunque noi ci sforziamo di essere sani, facciamo costantemente uno sforzo per non gridare, urlare, toccare, assaggiare. Tutto questo è importante a teatro perché lavorare su impulsi grandi e primordiali per poi trattenerli permette di lavorare su qualcosa di molto chiaro e concreto, evitando di lasciare l’attrice o l’attore nel metaforico e simbolico. Gli attori sono animali estremamente concreti, più si trovano elementi concreti, più l’attore può recitare bene.

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Osservare noi stessi

Ultima domanda: perché chi non è del mestiere troverebbe giovamento nel leggere Recitare le emozioni?

Già diversi non-attori che hanno letto L’attore specchio mi hanno detto che è interessante al di fuori della recitazione. Diciamo che recitare è fare volontariamente delle cose che accadono involontariamente durante la vita di tutti i giorni. Dunque leggere dei libri di tecnica dell’attore, soprattutto legati all’emozione o ai neuroni specchio, ci permette di riflettere su noi stessi, cosa che facciamo andando a teatro.

Quando si va a teatro come spettatori, lo si fa per osservarsi riflessi in un’altra persona che si prende l’onere e l’onore di rappresentare qualcosa di comune a una comunità. Nei miei libri credo ci siano degli interrogativi o una lente su alcuni fenomeni che ci riguardano al di là della recitazione. A me interessa molto la recitazione anche perché mi permette di studiare me stesso e i miei simili. Tanti scienziati usano gli attori per desumere delle regole del nostro comportamento. Un non-attore, leggendo le domande che si fa un regista su cosa debba succedere sulla scena, può farsi delle domande su se stesso.

Come il teatro interessa anche ai non-attori perché studia le interazioni fra esseri umani, così anche i libri interessano perché cercano di capire come funzioniamo.

Marialuce Giardini

Diplomata al liceo classico, decide che la sua strada sarà fare teatro, in qualsiasi forma e modo le sarà possibile.
Segue corsi di regia e laboratori di recitazione tra Milano e Monza.
Si è laureata in Scienze dei Beni Culturali nel 2021

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