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Pensare come respirare. L’immanenza nella filosofia di Baruch Spinoza

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Il pensiero di Baruch Spinoza ruota attorno a un’idea abissale che struttura la realtà come un’ontologia pura, ossia come un piano orizzontale ed univoco, i cui enti sono singolarità, essenze particolari, dove non vi è né alto né basso in quanto non vi è un principio trascendente che ordini l’essere e lo disponga secondo gerarchie. Questo concetto fondativo della filosofia spinoziana è l’idea di immanenza.

Causa immanente e non transitiva

L’immanenza è la presenza del principio primo, il permanere della causa prima in ogni effetto; «Dio è causa immanente, e non transitiva, di tutte le cose». Immanenza non è soltanto permanenza di Dio in tutte le sue espressioni, ma anche e soprattutto permanenza d’ogni cosa presso Dio: «tutto ciò che è, è presso Dio e deve essere concepito per mezzo di Dio», tutto ciò che è si dà presso Dio poiché fuori da Dio non può essere niente, giacché tutto è prodotto, conservato e mosso da Dio, dall’essere. L’esperienza degli enti singolari è l’esperienza di questa prossimità radicale, è immersione nel proprio essere reale, effettivo. Che un ente sia immanente significa che esso non è una creatura, non ha scissione con sé o col reale, bensì è uno solo con l’essere, un modo d’essere di Dio. Essere immanenti significa essere l’immanenza nell’immanenza, ovvero essere il medesimo mondo che guarda il mondo.

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Immanenza ovvero unità

L’immanenza è la stessa sostanza, la stessa causa di sé: è ciò «la cui essenza non può essere concepita se non come esistente». Essa non è una caratteristica essenziale dell’essere, non un attributo divino, ma l’essere stesso, la definizione di Dio. In Spinoza Dio, in quanto sostanza, è in sé e si concepisce per sé; similmente l’immanenza, in quanto immanenza, è inseità ontologica e perseità concettuale, ovvero è indipendente sul piano reale e autonoma sul piano ideale, è in sé e si concepisce per sé. L’immanenza non ha fratture né trascendenze: essa percorre l’intero piano in cui consiste costituendolo e trasformandolo, senza incontrare altro che sé stessa. L’assenza di fratture e la piena presenza di cui consiste la sostanza implicano che la sfera del pensiero e la sfera dell’estensione, l’idea e la realtà, lo spirito e la natura, non siano in un rapporto conflittuale e d’alterità. Se l’immanenza è, non essendovi trascendenza, realtà e idea coincidono strettamente, costituiscono un nucleo unitario e armonico: «l’ordine e la connessione delle idee», scrive Spinoza, «è lo stesso dell’ordine e della connessione delle cose». Questa identità è garantita dall’indipendenza reale e ideale della sostanza, per cui s’intendono i suoi attributi, ovvero ciò che «l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua essenza», pensiero ed estensione, come espressioni medesime che differiscono per il medio attraverso cui s’esprimono e non per il contenuto, come timbri diversi che s’armonizzano in un unico accordo. L’unico accordo è l’effetto della sostanza, ciò che da Spinoza è detto «Natura naturata», ovvero i modi, le singolarità che derivano dall’immanenza stessa. Questi non vivono due piani di realtà, uno materiale ed uno spirituale, ma sono coincidenti in un medesimo orizzonte dove mente e corpo, idea e carne, s’esprimono immediatamente e coerentemente, senza smentirsi né contraddirsi.

Immanenza Spinoza

L’intelletto e il moto

Ciò che noi chiamiamo immanenza si complica di due piani: il puramente oggettivo ed il puramente soggettivo, ossia il piano vitale e il piano trascendentale. Eppure essi non si biforcano: stanno in un’unità originaria che ricuce lo strappo della trascendenza in una precedente comunione, una comunione oggettiva e soggettiva a un tempo. Oggettiva sotto l’aspetto della realtà, del piano estensivo, corporeo; soggettiva sotto l’aspetto del pensiero, del piano pensante, ideale. Oggettivo e soggettivo ricoprono due lati del medesimo tessuto, sono il recto e il verso del foglio. Ciò che è soggettivo in Spinoza deriva dall’intelletto, il quale percepisce i caratteri costituenti dell’essenza di Dio, ovvero gli attributi. L’intelletto in Spinoza è manifestativo, porta a visione l’infinita attività dell’essere puro e semplice, della Natura naturante, e la natura: da un lato realizza l’attività divina nei corpi dell’estensione, dall’altro la intuisce nelle idee del pensiero; tramite un’intuizione intellettuale oggettiva e soggettiva il contenuto amorfo e primigenio della pura potenza sostanziale, lo realizza e lo idealizza immediatamente, dacché è. Quando l’intelletto percepisce, genera l’attributo ed al contempo l’intelletto è modo infinito immediato di uno specifico attributo divino, del pensiero. In questo senso il piano trascendentale, il soggettivo, è portato a manifestazione da sé stesso e, al contempo, porta a manifestazione l’estensione. Ma se pensiero ed estensione sono identici e seguono il medesimo ordine, significa che nell’estensione deve avere luogo un modo infinito immediato, deducibile immediatamente dall’attributo a cui appartiene, che interpreti l’intelletto sotto l’aspetto del corpo e che porti a compimento realmente il pensiero e l’estensione siccome fa l’intelletto. Questo modo infinito è individuato di passaggio da Spinoza in una lettera indirizzata a Schuller del 29 luglio 1675, contenuta nell’Epistolario (acquista). In questa si legge che, come l’intelletto nel pensiero, «il movimento e la quiete» costituiscono il modo infinito immediato appartenente all’attributo esteso. I rapporti di moto e di quiete intendono oggettivamente le connessioni e le discendenze delle idee, sono il corpo dell’intelletto.

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L’organico come base dello spirito

Vi è dunque un moto materiale, che produce corpi e cose, puramente oggettivo, che ha la sua identità soggettiva e ideale con l’intelletto. Spinoza intende il modo come un’espressione della potenza di Dio, della sostanza. Ogni modo esprime parzialmente, secondo la sua potenza, il suo conatus, l’infinità che definisce Dio. Ciò significa che intelletto e movimento, in quanto modi infiniti, sono espressioni infinite dell’infinita attività divina: esse esprimono perfettamente Dio, in quanto esprimono infinitamente «l’ente assolutamente infinito». Il conatus inaugura una filosofia del limite diveniente, della metamorfosi continua nell’eternità. Il concetto di potenza, intesa come essenza attuosa, è il concetto di un’espansione naturale degli enti, della tendenza a giungere ai margini della propria natura e ritrovarvi un limite oggettivo e ideale il quale, comprendendo l’unità immediata, si concilia con l’illimitatezza dell’onnipotenza divina. Il limite di potenza e di perfezione del modo è la beatitudine, ossia l’esperienza intellettuale di compartecipazione e unione essenziale col divino, l’esperienza della libertà. Senza margine di potenza non si potrebbe realizzare l’accrescimento necessario per giungere alla beatitudine. Eppure il margine conativo è dettato dalle effettive facoltà corporee e mentali, da cosa può un corpo. «La mente umana è atta a percepire moltissime cose, e tanto più è atta quanto più il suo corpo può essere disposto in molti modi». Il corpo, che è relazione fra parti estese, espressione della potenza essenziale nella durata, è la condizione di possibilità per l’esperienza dell’eternità divina: per l’accrescimento è necessario il conatus, è necessario il corpo in quanto transito organico della potenza. La visione di Dio in Spinoza è un’esperienza ricondotta al corpo, al berillo come organo fisiologico ossia spirituale. Senza attributo estensivo, senza l’identità tra movimento e intelletto, fra corpo e mente, il circolo della potenza rimarrebbe immoto, l’emendazione non sarebbe e Dio resterebbe inattivo, contraddicendo la propria natura.

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Pensare e vivere

In virtù della necessità corporea e dell’infinita attività, si comprende che la potenza è vita in quanto essenza dell’immanenza. Dalla comprensione dell’immanenza e della sua essenziale vitalità si rischiara il nesso costitutivo tra vivere e comprendere, tra corpo e mente. L’atto intellettivo è percezione comprensibile a causa dell’oscillazione fra pensiero ed estensione. Più radicalmente, vivere è già un atto conoscitivo e pragmatico: la vita non potrebbe esplicarsi senza la comprensione, sia pur confusa e mutila, che gli enti organici hanno dell’essere. Similmente conoscere è già vivere, una pratica naturale e naturalmente reale, un puro accadimento della sostanza: sia nella beatitudine percepita dall’intelletto emendato, sia nella vita come metamorfosi incessante, l’atto intellettivo si articola ed articola la vita. Essere è conoscere, conoscere è essere.

Mattia Brambilla

Sono laureato in filosofia presso l'Università degli Studi di Milano; amo il pensiero e le lettere, scrivo e mi diletto con gli scacchi.