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Salute mentale e arte: un binomio difficile

dalla newsletter n. 45 - dicembre 2024

5 minuti di lettura

Oggi il concetto di Arteterapia, intesa come una serie di pratiche artistiche volte all’espressione della propria creatività e al raggiungimento di uno stato generale di benessere, è stato istituzionalizzato anche in ambito medico e sanitario grazie ad un approccio più olistico e onnicomprensivo. In passato sono numerosi gli artisti che hanno utilizzato una sorta di arteterapia ante litteram con l’obiettivo di indagare un disagio o, addirittura, come contenimento di sintomi psicotici. In bilico tra genio e sregolatezza, l’artista è nell’immaginario collettivo colui che è particolarmente predisposto a sviluppare patologie mentali, al punto che già Aristotele si chiede perché gli uomini di grande intelletto siano più inclini a un temperamento melancolico. Tra i numerosi artisti che hanno combattuto, per brevi periodi o per tutta la vita, contro patologie mentali, dipendenze o comportamenti antisociali, ricordiamo il caso dello scultore tedesco Franz Xaver Messerschmidt (1736-1783) che ha saputo rappresentare il volto della follia nella serie di busti noti come Teste di carattere, e del pittore francese Théodore Géricault (1791-1824), autore del Ciclo degli alienati, tra i primi esempi di rappresentazione dignitosa della malattia mentale dal punto di vista artistico.

Il volto della follia: le «Teste di carattere» di Franz Xaver Messerschmidt

Illustre esponente del barocco tedesco, Franz Xaver Messerschmidt aveva condotto una vita regolare fino ai trentacinque anni – di umili origini, dopo gli studi era diventato uno dei ritrattisti di punta dell’alta aristocrazia viennese – fino al manifestarsi dei primi sintomi psicotici dopo la nomina a professore titolare dell’Accademia di Vienna, incarico dal quale verrà immediatamente rimosso.  L’inizio dei sintomi psicotici con delirio paranoide segna una vera e propria cesura per lo scultore che trascorrerà gli anni seguenti in quasi totale solitudine a Bratislava, dedicandosi alacremente alla produzione di opere d’arte. In questa fase di grande fragilità psicologica, tra il 1770 e il 1783, Messerschmidt realizza il suo capolavoro, ovvero la serie delle Teste di carattere, sessantanove busti scultorei maschili a grandezza naturale, di cui trentotto conservati al Belvedere Museum di Vienna.

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Le Teste di carattere, caratterizzate da grande realismo ed esattezza anatomica, si basano sui tratti somatici dell’artista e appaiono deformate da smorfie quasi demoniache. La smorfia era considerata da Messerschmidt un gesto apotropaico contro i terribili demoni che lo perseguitavano nelle sue fantasie e nei suoi incubi, procurandogli atroci dolori. L’artista era infatti convinto che i demoni volessero punirlo perché invidiosi della sua moralità – lo scultore si era imposto una totale castità – e del suo grande talento artistico.
Ciascuna testa è uno studio delle emozioni umane più strazianti, dalla paura al dolore, passando per il disgusto, in una sorta di memento di cosa significhi vivere con una patologia mentale.

La vicenda dello «scultore folle» ha affascinato numerosi studiosi, soprattutto nel Novecento, il secolo della Psicoanalisi, la disciplina fondata da Sigmund Freud, volta a indagare l’inconscio e i suoi riflessi nella vista cosciente del paziente. Tra le numerose interpretazioni in chiave psicoanalitica dei busti di Messerschmidt, possiamo citare quella dello psicanalista e storico dell’arte Ernst Kris (1900-1957), autore di un saggio intitolato Uno scultore malato di mente, nel quale individua nelle smorfie dei busti di Messerschmidt non solo un sintomo del delirio ossessivo paranoide con manie di persecuzione ma anche uno strumento di auto-cura, un modo intuitivo per esorcizzare le sue ossessioni e paure più profonde.  Nella sua analisi Ernst Kris si spinge oltre, arrivando ad ipotizzare le cause scatenati della malattia, ovvero il lutto non elaborato per la precoce morte del padre, un’omosessualità latente e una auto-repressione sessuale, sfociate in un vero e proprio quadro psicotico. Ernst Kris, come molti psicoanalisti, individua dunque una correlazione tra impulso artistico e impulso sessuale e vede nelle smorfie contratte e nelle labbra serrate un atteggiamento di rifiuto e di paura nei confronti della sfera romantica e sessuale.

Ridare dignità al malato: il «Ciclo degli alienati» di Théodore Géricault

I quadri facenti parte del cosiddetto Ciclo degli alienati sono forse tra le opere più note del pittore francese ottocentesco Théodore Géricault. Se infatti la storia dell’arte ci ha regalato numerosissimi ritratti intensi e interessanti, pochi possono vantare uno studio psicologico approfondito del soggetto come quelli realizzati tra il 1820 e il 1824 circa da Théodore Géricault.

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Poco nota, tuttavia, è la condizione di malessere di cui soffriva personalmente il pittore romantico. Verso la fine degli anni Dieci, infatti, Théodore Géricault si spende completamente nella realizzazione di quello che è forse il suo capolavoro assoluto e tra i capolavori della storia dell’arte del primo Ottocento: La zattera della Medusa, quadro tragico che racconta la storia vera di un naufragio avvenuto pochi anni prima. Il mancato successo immediato dell’opera e lo sforzo che aveva richiesto la sua realizzazione, oltre a una situazione sentimentale burrascosa, portano l’artista in uno stato di generale debilitazione fisica e psichica. Attanagliato da una profonda depressione e crisi nervose, Théodore Géricault si rivolge al giovane medico Étienne-Jean Georget, considerato oggi uno dei pionieri della psichiatria forense.

La stima che nasce tra i due porta il pittore a realizzare, seguito da Étienne-Jean Georget, il Ciclo degli alienati. Si tratta di un gruppo di dieci opere che hanno soggetti inaspettati in quanto si tratta di coloro che venivano allontanati dal vivere civile e rinchiusi spesso in strutture: i pazienti psichiatrici. Non è chiaro se l’idea della realizzazione di questi ritratti sia stata di Théodore Géricault o di Étienne-Jean Georget, tuttavia la vicinanza al medico ha certamente influenzato e aiutato il lavoro dell’artista. Delle dieci tele realizzate, cinque sono arrivate fino a noi, mentre delle altre cinque c’è testimonianza ma non esiste più nessuna traccia.
Invidia, cleptomania, mania del gioco e del controllo, assassinio, melanconia. Quelle ritratte da Théodore Géricault sono persone che, nell’idea della medicina dell’epoca, un po’ come sarà per Cesare Lombroso poco più tardi in ambito criminale, presentano sul proprio volto e col proprio corpo i segni fisici, evidenti della propria monomania e devianza. L’acutezza e la trasparenza delle espressioni colte permettono, a un occhio attento e preparato, di attribuire una “diagnosi” a ciascuno dei protagonisti.

Questi ritratti, come gran parte dell’opera di Théodore Géricault, rappresentano un unicum nella produzione artistica della sua epoca. Se è vero, infatti, che nel corso del Romanticismo trovano spazio soggetti insoliti e malinconici, a volte perturbanti – parola che nasce con Sigmund Freud e l’elaborazione della Psicoanalisi per come la intendiamo oggi -, come cattedrali in rovina e mare in tempesta, è anche vero che ritornano protagonisti i grandi quadri storici celebrativi – basti pensare a La Libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix – seppure in una forma totalmente nuova. Quasi due secoli prima Caravaggio aveva preso i poveri, gli emarginati, gli ultimi, coloro che vivevano per strada e li aveva resi Santi, Madonne, Apostoli. Quello che Théodore Géricault fa è prendere nuovamente queste persone senza però trasformarle, rappresentandole proprio perché interessato alla loro miseria, al loro malessere, celebrandolo, in un certo senso, attribuendogli dignità e dandone testimonianza ai propri contemporanei così come a noi.

Illustrazione di Lucia Amaddeo

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Rebecca Sivieri

Classe 1999. Nata e cresciuta nella mia amata Cremona, partita poi alla volta di Venezia per la laurea triennale in Arti Visive e Multimediali. Dato che soffro il mal di mare, per la Magistrale in Arte ho optato per Trento. Scrivere non è forse il mio mestiere, ma mi piace parlare agli altri di ciò che amo.

Arianna Trombaccia

Romana, classe 1996, ha conseguito la laurea magistrale con lode in Storia dell'arte presso l’Università La Sapienza. Appassionata di scrittura creativa, è stata tre volte finalista al Premio letterario Chiara Giovani. Lettrice onnivora e viaggiatrice irrequieta, la sua esistenza è scandita dai film di Woody Allen, dalle canzoni di Francesco Guccini e dalla ricerca di atmosfere gotiche.

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