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L’asse Mosca-Belgrado rischia di dividere l’Europa?

La guerra tra Russia e Ucraina ha inevitabilmente portato i paesi europei a schierarsi dalla parte di Kyïv. Ma in questo scenario qual è la posizione della Serbia, da sempre vicina a Mosca?

4 minuti di lettura

La scacchiera della guerra è spesso più ampia delle sole caselle che ci limitiamo a osservare: le mosse di alcune pedine dipendono da plance che non sempre vediamo, fuori dalla vista ma sempre all’interno di un’accurata strategia. Con l’invasione dell’Ucraina, lo scorso, anno, la presa di posizione contro la Russia della quasi totalità dei paesi europei è stata netta. Tuttavia, nella regione balcanica si sono manifestate nuove tensioni, alimentate da vecchi dissapori, che non sono totalmente slegate dal conflitto russo-ucraino, ma intimamente connesse ad esso.

Il 17 gennaio Aleksandar Vučić, presidente della Serbia, ha pubblicamente denunciato il gruppo armato mercenario Wagner per aver provato a reclutare soldati volontari tra i serbi, attraverso un’attività di proselitismo svoltosi per lo più sui social media ma anche su canali televisivi affiliati a media russi. L’attacco verbale rappresenta, per molti, il primo distanziamento della Serbia dalla Russia, che nel paese balcanico ha sempre visto uno dei suoi principali (e pochi) alleati nel vecchio continente. La Serbia, infatti, è l’unico Paese europeo insieme alla Bielorussia a non aver aderito al programma di sanzioni contro la Russia. In realtà, tuttavia, la posizione della Serbia non è mai stata netta, guardando da un lato all’Europa e all’Occidente, dall’altro alla Russia, con sguardi spesso ambigui dettati da esigenze contrastanti ma coesistenti.

Ambiguità e vantaggi per la Serbia

Storicamente, i due Paesi sono accumunati dallo stesso substrato ortodosso, ma anche dalla diffidenza nei confronti della NATO. Mentre nel caso della Russia, però, si tratta di una vera e propria aperta opposizione, nel caso della Serbia ci sono attività di dialogo e cooperazione, offuscate però da alcune ombre: a differenza degli altri Paesi balcanici, la Serbia non ha mai manifestato alcuna intenzione di aderire alla NATO, ma dal 2009 ha ufficialmente iniziato il processo di adesione all’Unione Europea. Il rapporto dissonante con l’occidente è più storico che politico, pur mantenendosi costante nelle preferenze popolari espresse dalla popolazione serba. Fu l’intervento della NATO, con il bombardamento delle forze militari serbe in Kosovo e di Belgrado, a determinare la fine della guerra del Kosovo e la fine dell’era Milosevic. Poco dopo, con il primo mandato di Putin, i rapporti con Belgrado si sono fatti subito stretti. Da lì, l’asse non si è mai spezzato, complice anche la forte dipendenza dal gas russo.

Già dopo l’invasione della Crimea, la Serbia guidata da Vučić non si era schierata contro la Russia, andando, al contrario, a intensificare i rapporti bilaterali di natura commerciale.  Ma la dissonanza continua. Con l’invasione dell’Ucraina, pur non avendo mai imposto sanzioni alla Russia, la Serbia ha tuttavia votato la risoluzione dell’Assemblea Generale ONU che la condanna. Nonostante lo svolgersi di proteste popolari contro l’invasione dell’Ucraina, nella capitale serba si sono svolte anche manifestazioni in favore della Russia.

Intanto Belgrado prova a mantenere ottimi rapporti con Bruxelles, confidando in un prossimo ingresso nell’Unione, e cominciando a sentire il sempre più crescente interesse europeo per una compromesso pacifico con il Kosovo.

Un’ambiguità che riflette la complessità balcanica, ma che è anche frutto di una forte identità nazionalista che vede spesso, nell’operato della Russia, una fiera corrispondenza.

Il nazionalismo in Serbia e la guerra

La vicinanza della Serbia alla Russia è spesso intravista nel modo ideologico di intendere la guerra, come strumento di unione.

Il nazionalismo serbo, giunto alla sua massima espressione nel corso delle guerre balcaniche, è stato a lungo influenzato dall’idea di una Grande Serbia, ossia il sogno di riunire sotto unico stato tutti quei territori dove ci sia una maggioranza etnica serba e, di conseguenza, estendere i confini oltre territori attualmente corrispondenti a parte della Croazia, del Montenegro, della Bosnia Erzegovina e della Macedonia. Una concezione non molto difforme da quella utilizzata dalla Russia per giustificare l’annessione di territori a maggioranza russofona, come appunto il Donbass.

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Un’ideologia che, nel caso della Serbia, è stato strumentalizzata per fini di controllo politico e strategico: così, quando negli anni Novanta i singoli moti identitari hanno iniziato a sfilarsi dallo spesso cordone della Jugoslavia, la repressione e la guerra hanno preso il sopravvento.

Il ruolo del Kosovo

Nella geopolitica dei Balcani, il rapporto tra Serbia e Kosovo è da sempre molto complesso. Proclamatosi indipendente nel 2008, il Kosovo è ancora rivendicato dalla Serbia che non ne riconosce l’indipendenza. A non riconoscerne l’indipendenza, però, sono anche altri Paesi, tra cui la Russia: avere dalla propria un alleato così forte è, per la Serbia, un forte elemento di tutela.

Se le tensioni con il Kosovo sono sempre state vive, nell’ultimo anno si sono ancor di più accentuate, soprattutto a causa delle dispute nella zona nord del Paese a maggioranza etnica serba. Più volte, nel corso degli scorsi mesi, il primo ministro serbo ha fatto riferimento a un intervento militare in tutela dei serbi del Kosovo del nord con parole che alle orecchie più attente non possono che ricordare analogie con la situazione nel Donbass. A dicembre la situazione nella zona nord del Kosovo, con il rinvio delle elezioni anticipate in quattro comuni, ha aperto nuove brecce nella possibilità di un intervento serbo, fomentato dalla Russia, e alcuni già ipotizzano una strategia che miri a aprire un nuova crepa in occidente.

Besnik Bislimi, vice primo ministro del Kosovo, a fine dicembre ha dichiarato che «c’è una tendenza della Russia a deviare l’attenzione dall’Ucraina», riferendosi a quella che ritiene una «evidente influenza russa». Ma anche il Kosovo, nell’intermediazione operata da rappresentanti UE e USA per i Balcani, sa bene che dovrà riuscire a compiere uno sforzo per superare l’instabilità nel nord del Paese e ottenere prima o poi un riconoscimento ufficiale da parte delle Nazioni Unite e da altri Paesi europei (come la Spagna) che non hanno ancora ufficializzato il riconoscimento.

La Serbia resta quindi in attesa, senza osare troppo e senza retrocedere, in una situazione di stallo che non rappresenta comunque un equilibrio e che, a lungo andare, potrebbe generare una nuova difficile crisi nel cuore del vecchio continente.

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Gianluca Grimaldi

Napoletano di nascita, milanese d'adozione, mi occupo prevalentemente di cinema e letteratura.
Laureato in giurisprudenza, amo viaggiare e annotare, ovunque sia, i dettagli che mi restano impressi.

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