È delicato l’esame delle cosiddette differenze culturali, di frequente evocate dai difensori dell’identità nazionale, dei sacri confini delle patrie venerati per l’odio che generano invece che aborriti per le distanze che creano. Non regge, ad esempio, agli strumenti della storia e della filosofia, la nozione di cultura intesa come palla da biliardo, inevitabilmente proiettata allo scontro con l’altro; come d’altronde è tralignante il concetto stesso di differenza, per lo meno nell’accezione comune di separatezza di oggetti che non si toccano nemmeno, mostrandosi visibili con chiarezza nelle rispettive appartenenze.
Fortunatamente, grandi intellettuali e uomini di pensiero sono qua e là nella storia intervenuti per ricordare la spesso grossolana inadeguatezza del senso comune. Uno di questi fu Claude Lévi-Strauss (1908-2009), l’antropologo francese che rivoluzionò l’ambito di studi delle scienze sociali, nonché uno dei massimi rappresentanti dello strutturalismo, indirizzo di pensiero che fa capo al linguista Ferdinand de Saussure e successivamente estesosi alla filosofia, all’antropologia, alla critica letteraria e numerose altre scienze.
Per più di 10 anni (dal 1989 al 2000) Lévi-Strauss offrì al pubblico italiano una serie di articoli dedicati alla società contemporanea, periodicamente pubblicati sulle pagine di Repubblica. L’editore Il Mulino ha di recente raccolto alcuni fra i più brillanti di questi interventi in un volumetto di non più di 170 pagine dal titolo Siamo tutti cannibali. Gli articoli sono brevi, di agile lettura, scritti con la chiarezza che solo Lévi-Strauss può offrire e sempre sagaci e taglienti, come fu la prosa di Montaigne e Rousseau, alla quale l’antropologo esplicitamente si richiama. L’acutezza di pensiero di Lévi-Strauss incontra in queste pagine il nostro tempo, rovesciando stereotipi, mostrando incongruenze e, come un basso continuo nel testo, suggerendo che «la distanza tra le società cosiddette evolute e complesse e quelle a torto chiamate primitive e arcaiche è minore di quanto non si creda». Si muove paradigmaticamente in questa direzione l’articolo Siamo tutti cannibali, che al volumetto dà il titolo, spina dorsale dell’intera raccolta.
Come suggerito dall’icastica intestazione, è il problema del cannibalismo che Lévi-Strauss affronta, alla luce di due eventi lontani tra loro negli anni, ma vicini per la problematica che li accomuna.
La Nuova Guinea rimase inesplorata fino al 1932 e soltanto 18 anni dopo ci si rese conto che quel vasto territorio accoglieva quasi un milione di uomini di lingue diverse, ma apparentate. Popoli che naturalmente ignoravano l’esistenza dei bianchi, suscitando l’interesse di antropologi ed etnologi che si ritrovarono con un mondo totalmente sconosciuto da studiare. Ma l’interesse, come fu degli etnologi, catturò di lì a poco anche biologi e studiosi di scienze naturali. È infatti nel 1956 che un biologo americano, Carleton Gajdusek, scoprì in quelle regioni una malattia sconosciuta che colpiva pressappoco ogni anno una persona su cento, provocandone la degenerazione del sistema nervoso centrale che si manifestava con un tremore incontrollabile e, conseguentemente, la morte. Da qui il nome della malattia, kuru, che in lingua significa appunto «tremare», «rabbrividire». Qualcosa di simile accadeva nel mondo occidentale: sporadicamente un’affezione degenerativa del sistema nervoso, la malattia di Creutzfeldt-Jakob, causava la morte di vite umana. Gajdusek provò che le due malattie erano in realtà la stessa, scoperta per la quale, nel 1976, gli fu assegnato il Nobel per la medicina.
L’ipotesi iniziale voleva il kuru essere una malattia di origine genetica, lasciando tuttavia inspiegato come mai colpisse spesso donne e bambini piccoli, mentre molto più raramente i maschi adulti. Ricerche successive ne individuarono la genesi infettiva e fu un’altra l’ipotesi formulata per la spiegazione del kuru: a detta di un gruppo di etnologi coinvolti nelle ricerche, la malattia avrebbe potuto essere l’effetto delle pratiche cannibaliche invalse presso le popolazioni della Nuova Guinea. Mangiare il cadavere dei parenti deceduti è, in queste lontane regioni, testimonianza di affetto e rispetto nei loro confronti. Della cura e smembramento dei cadaveri si occupano le donne, bollendo gli organi che poi in comunità sarebbero stati assunti. Le donne restavano quindi contaminate nel corso di tali pratiche rituali, a loro volta estendendo la malattia ai figli.
A qualche chilometro di distanza dalla Nuova Guinea, si assistette (pressappoco negli anni in cui Lévi-Strauss scriveva l’articolo, nel 1993) in Francia e Gran Bretagna, ad alcuni casi di malattia di Creutzfeld-Jakob (come si è visto, identica al kuru), manifestatisi nelle vittime a seguito di iniezioni di ormoni o trapianti di membrane provenienti da cervelli umani.
Scrive Lévi-Strauss: «Qualcuno forse contesterà un simile accostamento, ma se si introduce in un organismo una certa quantità della sostanza altrui, che differenza c’è tra il farlo per via orale o per via sanguigna, mediante l’ingestione o con un’iniezione?». E in effetti è acuta l’osservazione dell’antropologo francese, perché il confine che separa una pratica cannibalica per assunzione diretta (il caso dei selvaggi della Nuova Guinea) da una indiretta (il caso degli occidentali) è labile, se non inesistente. Certo, si potrebbe obiettare che è «l’appetito bestiale per la carne umana a rendere orribile il cannibalismo», ma in tal caso, aggiunge Lévi-Strauss, si dovrà limitare la condanna «a poche manifestazioni estreme escludendo dalla definizione di cannibalismo altri casi attestati nei quali esso si impone come un dovere religioso, spesso compiuto con una ripugnanza che provocano malessere e vomito».
All’indomani della scoperta dell’America, Michel de Montaigne scriveva nei suoi Saggi che le popolazioni autoctone recentemente venute in contatto con gli esploratori occidentali potevano certo apparire di rudi costumi agli occhi di un mondo totalmente avulso dal loro, ma soggiungeva anche che qualsiasi giudizio manca sempre di oggettività, non potendo mai prescindere dalla realtà sociale, economica e culturale che lo precede. E concludeva notando come: «ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa».
La prospettiva di Lévi-Strauss, vicina a quella di Montaigne, lascia intendere quanto difficile sia ragionare sul relativismo culturale, che sempre va tenuto fermo nella considerazione di ciò che da noi è lontano. Così, per quanto gli oceani possano dividere e gli anni separare, non è mai netto il confine tra pratiche che paiono apparentemente non coinvolgerci, ma in realtà si trovano già da sempre radicate in noi.
Consci dunque, come voleva Erodoto, che «se uno proponesse a tutti gli uomini di scegliere, tra tutti i costumi esistenti, i migliori, ciascuno, dopo averci ben pensato, sceglierebbe i propri», è importante tener viva la lezione di Lévi-Strauss: che cioè «il lontano illumina il vicino» e, sotto sotto, siamo tutti cannibali.
[…] È delicato l’esame delle cosiddette differenze culturali, di frequente evocate dai difensori dell’identità nazionale, dei sacri confini delle patrie venerati per l’odio che generano invece che aborriti per le distanze che creano. Non regge, ad esempio, agli strumenti della storia e della filosofia, la nozione di cultura intesa come palla da biliardo, inevitabilmente proiettata allo scontro con l’altro; come d’altronde è tralignante il concetto stesso di […] Continua a leggere […]