Esiste un’intima connessione tra l’ultima opera di un artista e il suo vissuto? Quale retaggio ci donano i grandi maestri della Bellezza una volta che il loro sguardo sul mondo si è spento? Fabrizio Coscia, nel suo libro La Bellezza che resta(acquista), si fa carico di questi interrogativi e, interiorizzandoli, tenta di rispondervi in poco più di un centinaio di pagine.
La genesi dell’opera: Beslan
La Bellezza che resta, si apre con le immagini di una cronaca remota, ma ancora spaventosamente vivida nella sua bruciante e terrificante sconsideratezza. Ci troviamo a Beslan – città russa dell’Ossezia settentrionale –, nella scuola che nel settembre del 2004 si trasformò nel teatro del massacro a porte chiuse operato da un gruppo di separatisti ceceni in cui persero la vita in centinaia tra genitori, bambini ed insegnanti.
Un evento che, seppur geograficamente distante, si insidia velenosamente nel panorama esistenziale dell’autore, costringendolo a ricercare una giustificazione che possa motivare agli occhi della ragione le cause di una simile barbarie. Quale scusante possibile se, per dirla con Dostoevskij, «né l’armonia eterna, né l’acquisto della verità possono valere il prezzo delle lacrime di un solo bambino torturato»?
Nell’incessante ricerca di una risposta, Coscia si imbatte in un articolo di Evgenij Evtušenko, che sintetizza il suo parere sulla strage in una sentenza: «se il presidente Eltsin avesse letto Chadži-Murat di Tolstoj è assai improbabile che si sarebbe imbarcato in un conflitto coi ceceni».
Se svelassimo quale relazione intercorre tra il massacro di Beslan e il romanzo tolstojano, non faremmo nulla di diverso che scrivere sulla copertina di un romanzo giallo il nome dell’assassino, ragion per cui, per la risposta, si rimanda alla lettura del testo italiano.
Ciò che conta è che furono proprio le parole del poeta russo a spingere Coscia alla lettura di Chadži–Murat: il motore immobile senza il quale La Bellezza che resta non avrebbe avuto origine.
Chadži–Murat: il cardo àvaro
Cos’è, in sintesi, Chadži–Murat? È un romanzo dell’ultimo Tolstoj – quello della fase di conversione ai Vangeli, per intenderci. Proprio alla luce di ciò, si profila come desueta una narrazione dai tratti talvolta incoerenti rispetto a quell’istanza redentrice progressivamente e strenuamente spalleggiata dal romanziere russo nelle battute finali della sua vita.
Chadži-Murat, però, è anche l’impavido condottiero àvaro che regala un titolo al manoscritto di postuma pubblicazione: una figura in cui Bellezza ed eroismo si intrecciano sinuosamente sotto l’ala di un’eroicità sostanzialmente omerica ed il cui nucleo umano – una miscela inconfondibile di eros ed ethos – ci restituisce il fascino senza tempo di una resilienza che si mostra inamovibile anche di fronte alla necessità della morte.
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In un’annotazione sul suo diario datata 1896, Tolstoj identifica la sua fonte d’ispirazione per la stesura dello scritto con la visione di un cardo piegato, ma non spezzato, dal passaggio di un aratro.
Mi ha fatto pensare a Chadži-Murat. Ho voglia di scrivere. Lotta per la vita fino all’ultimo e, unico nel campo, riesce a difenderla.
Ma Chadži–Murat è anche la storia di indocilità di un estro creativo che, soffocato dagli argini di austerità ed espiazione eretti dall’autore, erompe in tutta la sua violenza, simboleggiando la lotta «del daimon tolstojano che rivendica, per l’ultima volta, il diritto ad esistere».
Cronache – ed opere – di artistica resilienza
L’onda di questa visione critica genera in Fabrizio Coscia il bisogno di una riflessione sul valore dell’arte nel vissuto di chi se ne fa operativamente portavoce e di chi, al contrario, vi si accosta nella sua già compiuta interezza – l’osservatore, noi comuni mortali; del suo valore, a questo proposito, rispetto a circostanze umanamente universali quali, ad esempio, l’elaborazione di una perdita – che se per Coscia può essere quella del padre, il toccante e autobiografico filo conduttore dipanantesi dalle prime alle ultime pagine, per il poeta greco Kavafis può essere quella, struggente, dell’amico Miris (vedasi Miris, Alessandria del 340 a.c.) – o, ancora, rispetto al fine vita, sia esso dell’artista, il nostro, o anche quello della Bellezza stessa, spesso osteggiata da quelle circostanze che paiono annientarne l’ipotesi d’esistenza, trascinandoci in un baratro di sconforto, malafede, o inorridita rassegnazione.
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E così, uno dopo l’altro, sfilano davanti ai nostri occhi i fantasmi di artisti come Renoir che, in barba all’artrite, fa del suo ultimo quadro un inno alla vita, in quel tripudio di colori, luce, rotondità e pienezza che è Le bagnanti.
O come Frida Kahlo, che assegna alle forme e alla vivacità delle tinte di Viva la vida il compito di farsi gioviale e glorioso testamento di un’esistenza, in antitesi, estremamente martoriata e martoriante.
O ancora, quello del compositore Glenn Gould che nelle sue variazioni di Bach sembra suonare «tutto ciò che c’è da suonare», fino all’ultima stilla di vita, di incondizionato amore per la musica.
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Un duplice congedo
L’ultimo ritratto offertoci dall’autore è quello della filosofa Simone Weil che, divorata dalla tubercolosi, nei suoi ultimi giorni di vita, prigioniera di una struttura ospedaliera, intima nella sua ultima lettera ai genitori di non essere mai ingrati nei confronti delle cose belle, ma di goderne a fondo, giorno per giorno.
«Dovunque c’è una cosa bella, ditevi che ci sono anche io»: è così che la filosofa si congeda, ed è proprio ricorrendo alle medesime parole che Coscia congeda il suo lettore.
La Bellezza che resta
Lettore il quale, nell’abbraccio tra la prima e la quarta di copertina, non può che trarre dalle pagine un’ultima, intima conclusione: come il cardo tolstojano, come la ginestra leopardiana, la nostra speranza di Bellezza è costantemente piegata, messa alla prova dalle brutture, dai massacri di cui questo mondo si fa sempre più spesso palcoscenico.
Credere in essa quando tutto ciò che abbiamo di fronte è solo la sua esatta, brutale negazione, diviene un vero e proprio atto di fede. Un atto epico, ma di incommensurabile, straordinaria, disarmante Bellezza.
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Quella Bellezza disarmante ma disarmata, che nello spirito di chi ha il coraggio di celebrarla, cantarla, trova radici per il suo permanere, consentendoci di percepire l’anelito dell’ideale anche in quell’asfittico scenario di ombre in cui, alle volte, si trasforma il mondo. L’anelito di una Bellezza senza tempo. La Bellezza che resta.
Sara Campisi