fbpx

Opulenza e austerità nell’Italia duecentesca: due volti, una rivoluzione

Divisa tra nuove forme di ricchezza e movimenti religiosi che predicavano la rinuncia ai beni materiali, l'Italia del XIII secolo si rivela molto più di una semplice fase di passaggio verso il Rinascimento: perché è stato un momento cruciale per la fondazione della nostra modernità?

5 minuti di lettura

Il Duecento fu epoca poliedrica di una nuova e propulsiva forza creativa, rappresentando forse uno dei più decisivi momenti costitutivi della storia di una nazione. Nonostante ciò, viene relegato a una fase intermedia della nostra storia e disconosciuta la sua eredità dai due volti, vero genitore di quella modernità che facciamo volgarmente comparire nel XV secolo.

Nuova ricchezza, nuova povertà

LItalia bassomedievale non nacque dal nulla e la sua crescita fu eredità di strutture che risalivano a un’epoca romana ormai sommersa: se però i fenomeni che la determinarono furono molteplici e duraturi, in un breve lasso di tempo che interessò il XIII secolo venne alla luce una cultura nuova che si separava, in molti aspetti, da quella precedente, sia in ambito artistico che spirituale. Fu un’evoluzione peculiare, perché a tutto campo e indissolubilmente connessa a quella storica. La ricchezza che andava accumulandosi nelle città, nelle mani di nuove classi e mestieri, fu parallela a un’altra trasformazione che seguiva le stesse orme di quella sociale. Il Basso Medioevo segnò, infatti, anche l’inizio delle riforme spirituali, delle eresie e degli ordini mendicanti: la cosa curiosa fu che questi movimenti pauperistici che invocavano una vita austera e lo spoglio dei beni attecchirono soprattutto in quelle regioni in cui si stava affermando un sistema economico monetale e una prima accumulazione di ricchezza, ossia quelle più romanizzate dell’Italia e della Provenza. In un mondo di città, di scambi e di crescita, vennero accolti predicatori itineranti che iniziavano la società a una nuova sensibilità, predicando a chi abitava botteghe, mercati e consigli cittadini. Come se alla trovata opulenza si contrapponesse un’altrettanta e ostentata voglia di austerità. Questi due fenomeni andarono di pari passo. Le stesse classi emergenti che nei comuni si associavano per fini professionali e militari lo facevano anche per fede, ingrossando il fronte di confraternite vicine a ideali mendicanti. Tutto ciò era, del resto, strumento di affermazione della nascente società comunale, le quali prospettive e condizioni si riflettevano in una nuova ideologia e insieme di gusti, valori. In effetti, le prime personalità che vengono in mente pensando alla nascita dei nuovi ordini mendicanti erano figlie della trasformazione sociale interna alle terre romanze: Francesco era agiato rampollo di Assisi, Valdo ricco mercante di Lione, Domenico de Guzman benestante castigliano. Testimonianza della sinergia fra i due movimenti, quello politico e spirituale, fu il bando che Federico II di Svevia impose, durante le guerre contro le città italiane, all’ordine francescano nel Regno di Sicilia poiché ritenuto strumento comunicativo di propaganda (diremmo noi oggi) in favore dei comuni.

Giotto, rinuncia agli averi (1292-1296), Basilica superiore di Assisi

Leggi anche:
Come un frate contribuì a fondare la letteratura italiana

Dolore, forma e materia

La genesi del diffuso pauperismo che interessò le terre romanze partiva da uno spostamento concettuale del culto cristiano, non più riferito al Dio come ente supremo, ma al Cristo in quanto vero uomo. Non tanto perché a essere negata fosse la natura divina, ma perché era la passione, o la sofferenza, a essere il centro del percorso religioso: in altre parole, non tanto il trionfo sulla morte, la resurrezione, ma l’espiazione sulla croce. Tale trasformazione non veniva solo come frutto di un ragionamento mentale, ma anche come conseguenza di una condizione di fatto storica: l’Italia si stava de-romanizzando, stava perdendo la sua connessione con la spiritualità tardo-imperiale e bizantina. Perciò a essere messo in discussione era il tratto greco del culto, la sua matrice costantinopolitana, in cui permaneva un’adorazione gerarchica del Dio padre. Il dolore, concepito come caratteristica fondamentale della mortalità, non può essere vissuto che per mezzo del corpo, veicolo della vita e dell’esperienza. Se sono le azioni, il concreto gesto del vivere ad avvicinare l’uomo a Cristo, dunque a Dio, ne consegue anche che il corpo diventa strumento per perseguire la fede. È questa la piattaforma su cui si misura la bontà dell’individuo, nell’esperienza che compie e nella sua volontà ad avvicinarsi, nonostante la sofferenza, alla salvezza. Pensando questo, una società in trasformazione si chiese quale fosse il senso di rappresentare Cristo in croce con un volto immoto, in cui a essere messa in risalto è la sua inumanità, la sua trascendenza. Se è vero che il messaggio cristico sta nella passione come metafora di tutta l’umanità, allora il simbolo della croce deve cercare di rappresentarla più umanamente possibile. Il Cristo trionfante altomedievale, orientale, dorato, dritto, placido, bidimensionale e luminoso, venne superato da quello dolente, crucciato, sanguinante, voluminoso. La pittura «che funge all’analfabeta quello che la scrittura è per il letterato» infondeva nei credenti che guardavano gli affreschi e le tavole lignee una nuova reverenza, non più verso il volto etereo della divinità, ma verso il sacrificio dell’uomo. Deve aver creato una gran suggestione nella società, perché il cambiamento attecchì e portò essa, assieme ai suoi nuovi artisti, a ripensare il mondo sotto molti aspetti.

A sinistra un Cristo trionfante (anonimo, inizio XIII secolo), a destra il Crocifisso di Santa Maria Novella di Giotto (1290-1295): il confronto quantifica il mutamento compiuto in meno di un secolo.

Leggi anche:
La «Crocifissione» di Cimabue nella Basilica di San Francesco d’Assisi

Gotico, padre disconosciuto del Rinascimento

Trovata – per la seconda volta nella storia cristiana – questa umanizzazione del Dio, la centralità del corpo, della sua forma e della sua materia, si approdò a un umanesimo in formazione. Dalle chiese delle province italiane artigiani sperimentatori, maestri di bottega divennero essenziali promotori visivi di una rivoluzione simbolica. Il loro gesto provocatore stava nel raffigurare i corpi nello spazio, di trasporli in un mondo corruttibile, dove la carne si lacera, si decompone, dove alcuni muscoli si rilassano e alcuni si tendono. A dire il vero, questa non era stata neanche una totale novità, poiché in scultura la dinamicità e verosimiglianza del gotico avevano già sostituito la rigidità e astrattezza del romanico. Partendo da questo presupposto, Giotto, si era acutamente appropriato del gotico d’oltralpe e l’aveva applicato alla pittura, sconfiggendo le permanenze romaniche e ponendo le basi per quello che divenne, nel Quattrocento, il Rinascimento pittorico. Nelle parole del polemico Giovanni Boccaccio, Giotto, così come i maestri Cimabue e Giunta Pisano prima di lui, aveva avuto la profana pretesa di rappresentare Cristo come vero uomo poiché all’azione manuale dell’artigiano non era precluso farlo, mentre lo era, al tempo, per un campo intellettuale e liberale come la poesia.

Senza che, alla mia penna non dée essere meno d’autoritá conceduta che sia al pennello del dipintore, il quale senza alcuna riprensione, o almen giusta, lasciamo stare che egli faccia a san Michele ferire il serpente con la spada o con la lancia ed a san Giorgio il dragone, dove gli piace, ma egli fa Adamo maschio ed Eva femina, ed a Lui medesimo che volle per la salute dell’umana generazione sopra la croce morire, quando con un chiovo e quando con due i piè gli conficca in quella.

Giovanni Boccaccio, Decameron, Conclusioni dell’Autore

In questa affermazione sta tutto il cruciale cambiamento dell’epoca: l’ascesa di nuove classi cittadine, di una nuova cultura simbolica e scritta, di una nuova politica. Un’epoca nuova che però, contrariamente a quanto viene detto nella narrazione comune, non si affermò comparendo dal nulla, bensì come portato di una cultura che abbiamo definito “di mezzo”, quella gotica. Doverosa precisazione per una pedagogia nazionale che per mezzo millennio ha fissato nel XV secolo l’apice ideale della nostra civiltà, quando in realtà esso andava già verso la dominazione straniera: spostando il climax, invece, a una data più “alta”, riusciremmo ad apprezzarne il momento dello “strappo”, quando cioè in modo repentino cambiò qualitativamente la forza creatrice di una società fin lì silenziosa. Fu in quel momento che avvenne, paradossalmente, il passaggio sincretico tra medioevo e moderno: spogliandosi delle reminiscenze tardo imperiali, ovvero rendendosi pienamente medievale e gotica, l’Italia poté riscoprire gli antichi e approdare al Rinascimento. Cambiamenti che la società opulenta dell’accumulazione, dell’economia monetaria, mercantile e delle nuove classi urbane aveva perpetrato attraverso una curiosa ideologia del povero, paradossale solo se osservata alla superficie: in verità si affermava una cultura secolare legata alla materia e alle sue forme, che premiava la manualità del lavoro, il progresso della tecnica, dell’artificio e lo studio del mondo fisico. Il pauperismo, dunque, fu solo il modo di una società mutata di sentire la spiritualità secondo valori più propri al concreto vivere, negazione e giustificazione assieme del mondo moderno in espansione.

Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!

Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!

Alessandro Maria Radice

"Il mio nome è Legione, poiché siamo in molti": classe 2002 e vago storico, ma anche osservatore di tutte quelle arti che cerco, indebitamente, di fare mie.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.