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Di cosa parliamo quando parliamo d’Occidente?

Siamo abituati a dividere il mondo tra Occidente e Oriente ma raramente ci interroghiamo sul significato di questi concetti, la cui storia rivela quanto sia in realtà arbitraria e mutaforme questa suddivisione.

10 minuti di lettura

Uno dei vocaboli più ricorrenti nel lessico storico contemporaneo è quello di Occidente. È
un’espressione corrente che viene usata sia da chi si sente di farne parte, sia da chi, pronunciandola,
vi si esclude. Proprio per questo suo generale utilizzo, volgarizzato diventa anche il suo significato
comunemente inteso.
Oggi l’Occidente può essere indicato come quella parte di mondo che si
estende tra i due poli dell’Atlantico settentrionale
, dove viene privilegiata la democrazia liberale, lo
stato di diritto e che si rivede in esperienze storiche europee come le rivoluzioni francese e inglese;
ma, a fronte di questa generale definizione, non esiste un vero e proprio consenso su cosa sia
davvero l’Occidente.
Lo si intuisce quando lo si nomina, ma mai lo si strappa dal nebuloso contesto
che lo circonda.

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Simmetrie geografiche e spirituali

Parlare di Occidente richiama una necessità di simmetria che è sempre stata presente nella storia.
Alcuni esempi: per i greci classici l’Asia era la terra dispotica, mentre l’Europa un mondo
indipendente
, in cui vigeva l’eleutheria; tra l’antichità e il Medioevo, con la divisione dell’Impero
Romano
del 395
, si formavano una cristianità latina e una greca, allontanate in dispute teologiche
come quella sul monopatrismo (la supremazia del padre sul figlio), in cui alcuni hanno ravvisato il
seme del dispotismo orientale; durante le crociate, l’Europa cristiana era contrapposta ai “mori”, così come lo fu poi all’Impero Ottomano. In questo modo si distende sulla terra un asse orizzontale ovest-est che si fa matrice di un eterno scontro materiale e ideale. Un punto di vista ben rappresentato dall’immagine del nodo di Gordio, reciso da Alessandro Magno e prefigurazione di quei due mondi che avrebbe unificato nel suo caduco impero universale. Una metafora suggestiva ripresa anche da Carl Schmitt e da Ernst Jünger, i quali scritti sono stati riuniti in un’interessante edizione da Adelphi1, compiendo una panoramica su questa sfida infinita.

Eppure, tutto questo retroterra non ha a che fare con ciò che noi oggi chiamiamo Occidente. Ne
rappresenta una specie di giustificazione ideologica, ma è un’illusione. Il nodo di Gordio individua
l’ovest e l’est nella geografia dell’Eurasia
, nella contrapposizione spaziale tra i due continenti che la
compongono. Il nostro “Occidente”, invece, non si rifà a tale dialettica, bensì si radica su di una
contrapposizione più nuova, moderna.
Va rintracciato non nel confronto dell’Europa con
l’Asia, ma con l’America.

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Genesi dell’Occidente: spazio caotico o libero?

Negli atlanti cinque-secenteschi il Nuovo Mondo viene raffigurato come immerso in una sfera estranea al Vecchio, in una porzione a sé stante del globo, costituendo un emisfero occidentale. Non è
una semplice trovata grafica, per rappresentare una sfera su di un piano, ma traccia nello spazio un
confine tra due diversi sistemi, diritti, ordini. Quando Thomas Hobbes, John Locke, Ugo Grozio o Renato Cartesio parlavano di Occidente, si riferivano alle Americhe; parimenti, questi pensatori non si dicevano occidentali, bensì europei. Il Nuovo Mondo era pervaso da una natura selvaggia, specchio e manifestazione dell’indole dei popoli indi, e per questo terra nullius per eccellenza, ovvero rivendicabile di diritto poiché di nessuno. Queste definizioni emergevano in quell’Europa in cui lo stato diveniva il più potente sistema politico, con la sua territorialità, i suoi confini e la sua irresistibile forza centripeta.

occidente
Carta del mondo di Frederick de Wit (1629-1706) dove spicca la separazione dei due emisferi

Così come i pensatori europei vedevano nell’emisfero occidentale il caos disordinato e selvaggio, i
nuovi americani trovavano nell’oriente, stavolta abito vestito dall’Europa, il dispotismo. Si
generava quella stessa polarizzazione ovest-est inventata dai greci contro i persiani, un baluardo
ideologico che per duecento anni segnò il pensiero americano, e in parte continua a farlo tutt’ora: lo
si vede nel perenne conflitto tra le varie parti degli Stati Uniti, nord e sud tra le altre, divise tra chi
vuole uno stato federale forte
, ricalcando le orme dell’esperienza storica europea, e chi invece
rivendica la connaturata differenza che distingue il Nuovo Mondo al Vecchio
, che invoca
nell’Europa il polo negativo da cui è fuoriuscita, per antitesi, la giovane nazione americana.
L’hobbesiano primato dello stato sulla società civile viene infranto da Thomas Paine, che rovescia
la gerarchia e si fa portavoce di quel sentimento indipendente ed egualitario proprio della
rivoluzione del 1776-83.

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Quando l’Europa divenne Occidente

L’emisfero occidentale si distingueva per differenza, realizzandosi come concetto esclusivo. Con la
dottrina Monroe, per tutto l’Ottocento, gli statunitensi tracciavano un confine sulla mappa, reclamando il loro ruolo di guardiani dell’Occidente, del continente americano, contro la forza dispotica del
colonialismo europeo
, demone a cui tutte le nazioni del Nuovo Mondo si erano ribellate. Una
convinzione che venne sopraffatta al principio del Novecento da una chiamata storica a cui gli Stati Uniti non poterono non rispondere. La dottrina Monroe, da semplice arma di difesa passiva, si faceva
strumento di difesa attiva, portando la nazione alla costruzione di una flotta d’alto mare, capace di
proiettare potenza lontana dalle rive di casa. Un ponte di navi, posto sopra l’Atlantico, che univa le
due sponde oceaniche in modo corrisposto: ora non erano solo gli europei a poter raggiungere le
Americhe, ma erano anche queste a poter bussare alla porta del Vecchio Mondo
.

L’epoca moderna viveva il suo tramonto, e con sé finiva la supremazia europea sul mondo, il
sistema ordinato che aveva definito così chiaramente la propria identità. Ci vollero due guerre
catastrofiche perché il vuoto di potere fosse colmato e un nuovo assetto storico-politico sostituisse
quello precedente.
Non senza resistenza dei nuovi egemoni, i quali portavano in sé la viscerale
distinzione tra Occidente, giovane e libero, e Oriente, arcaico e dispotico. Per anestetizzare questo
senso di separazione, crebbe dall’incipiente equilibrio un nuovo concetto di Occidente, non più
esclusivo e contratto, ma inclusivo e in espansione.

Un Occidente transoceanico e transcontinentale, centrato sull’Atlantico e unificatore, il quale, in
vista dello scontro col blocco sovietico, si nutre della dialettica classica
che può essere ammirata
nelle metope del Partenone, nascondendosi all’ombra del vecchio Occidente, quello caro all’Europa
e di esso gelosa: un taumaturgico recupero di dialettiche estranee, nondimeno familiari, come la
connessione alla civiltà greco-romana e a quella giudaico-cristiana, coordinate che hanno definito
ideologicamente l’identità europea, ma che ora fanno parte di quella nuova occidentale.

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Metamorfosi di un’idea

Alla luce di ciò deve prendere forma quella sensazione di estraneità che negli europei si manifesta
solo inconsapevolmente quando si rapportano al loro garante americano. L’Occidente, il nome sotto
cui si pongono, è un concetto mutaforme, che cerca di porre sul mondo un polo a ovest, così come
avviene a nord o a sud. È un tentativo fumoso, però, poiché arbitrario e soggetto alle continue
reinterpretazioni della storia.
Reale perché manifesto dell’attuale assetto storico, ma che non può
cancellare l’insita differenza, la lontananza tra Europa e America
, che mette in dubbio ancora di più
l’entità di questa civiltà occidentale, così tanto vagheggiata e cercata sia da chi si sente di
appartenervi, sia da chi la combatte

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  1. Carl Schmitt; Ernst Junger, Il Nodo di Gordio, Adelphi, 2023 ↩︎

Alessandro Maria Radice

"Il mio nome è Legione, poiché siamo in molti": classe 2002 e vago storico, ma anche osservatore di tutte quelle arti che cerco, indebitamente, di fare mie.

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