Il cinema indipendente
Il regista coreano Kim Ki-duk, noto per aver fatto la fila tra il pubblico alla prima del suo film Moebius presentato fuori concorso alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 2013, è fautore di una tipologia cinematografica che può essere compresa, alla occidentale, nella dizione di Cinema Indipendente. Questa formula non vuole semplicemente dire che la realizzazione del film non avviene attraverso i canali consolidati di produzione cinematografica (indipendente da essi), ma che proprio i film in questione sono indipendenti da qualsiasi contenuto prefissato.
Infatti due sono le caratteristiche del film indipendente: non è prodotto da una casa di produzione famosa; e, in secondo luogo, il regista ha tutte le libertà concettuali, psicologiche ed emotive che riesce a prendersi nella messa in scena del contenuto del film che sta realizzando.
Kim Ki-duk, un regista per caso
Kim Ki-duk nasce nel 1960 in Corea del Sud; a 17 anni, finita la scuola dell’obbligo, è costretto a lavorare in fabbrica per mantenersi, a 20 anni si arruola in marina e aspira a diventare un predicatore. All’età di 30 anni si trasferisce a Parigi e vive come artista di strada, nel 1993, senza avere nessuna preparazione accademica, inizia a muovere i primi passi come sceneggiatore. Nel 1996 esordisce alla regia con il film Coccodrillo. Da quel momento non ha più abbandonato il cinema, editando film di un enorme spessore concettuale e di un fortissimo impatto emotivo, utilizzando le nozioni tipiche della sua cultura asiatica, connettendole all’esperienza di vita dell’uomo moderno e a tutta una varietà di simboli e di significati mentali importanti per la ricezione del senso profondo delle relazioni umane. Per citare un film su tutti: Pietà. Con il quale si aggiudica il Leone d’oro nel 2012 alla 69ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
![Kim Ki-duk](https://www.frammentirivista.it/wp-content/uploads/2019/03/foto_festival_cinema_venezia_2012_premiati_01_1.jpg)
«Time»: il destino perduto e il tempo cancellato
Il film di cui parliamo in questo articolo è Time (2006). La poetica di fondo del film è l’asimmetria tra due amanti. Il fatto che l’amore non possa essere condizione sufficiente al benessere psicologico di un individuo, ma anzi, come nel caso di Seh-hee e Ji-woo, possa diventare ragione di strazio e turbamento. Seh-hee, una ragazza profondamente innamorata non riesce a capacitarsi di come il suo uomo possa continuare ad essere innamorato di lei nel tempo. Il dilemma è questo: «Ci ameremo per tutta la vita? Con il passare del tempo non si stancherà di vedermi?». Tormentata da queste domande Seh-hee decide di farsi una plastica facciale, di cambiare i suoi connotati.
Questa decisione, derivante dalla frustrazione che prova (forse immotivata, forse no), ci dice qualcosa di importante su come funzioniamo: la nostra psiche ci consente di cambiare personalità, di modificare le nostre abitudini e i nostri pensieri, ma il nostro corpo non muta in termini altrettanto radicali. Quindi per Seh-hee l’alternativa per farsi amare anche come una persona diversa è modificare il suo aspetto fisico. Il suo limite è quello di non riuscire a cambiare la sua natura psicologica e comportamentale.
Tuttavia, il suo compagno Ji-woo, dopo che lei è sparita, non ha rapporti effettivi con nessun altra donna, sebbene provi ad averne. In modo del tutto inaspettato e incomprensibile allo spettatore Ji-woo riesce a riconoscere per strada Seh-hee nonostante la plastica facciale e le sue trasformazioni. Lui la rincorre, viene investito e muore. A questo punto Seh-hee decide di farsi un’altra plastica facciale in modo da non poter essere, sta volta, più riconosciuta da nessuno…
![Time Kim Ki-duk](https://www.frammentirivista.it/wp-content/uploads/2019/03/time1.jpg)
La scena finale del film presenta, con un’immagine, l’idea di un futuro perduto e di un passato che non sarà mai esistito. E quindi, Kim Ki-duk vuole ribadire che la chiave dei rapporti umani, come di tutto il resto, è il tempo, parola che infatti dà il titolo al film. L’immagine che conclude la pellicola è una scala sulla spiaggia i cui gradini poggiano su due enormi mani che li sostengono, si tratta di un’opera d’arte scultorea in ferro sulla quale i due amanti si sedevano a godersi il mare abbracciati sentendosi l’uno con l’altra. Ora la si vede ora in mezzo al mare, con la marea che progressivamente la sommerge fino a farla sparire.
Con questa metafora immaginifica Kim Ki-duk mostra come ciò che esisteva come vero, splendido ed emozionante, si è deformato e sconvolto a tal punto che non è semplicemente finito (come può finire una storia d’amore), ma è diventato non essere obliato e inosservabile persino dalla fugace e involontaria occhiata di un passante disinteressato.