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Too Old to Die Young

Too Old to Die Young, la serie di Nicolas Winding Refn

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4 minuti di lettura

L’importanza di rappresentare la violenza

«Troppo vecchio per morire giovane», questo è il titolo della traduzione in italiano della serie prodotta da Amazon e firmata Nicolas Winding Refn: Too Old to Die Young. Il teaser trailer di un minuto e mezzo, uscito qualche giorno fa, indica un contenuto violento. Si parla già in certi articoli di un audiovisivo seriale definito «ultraviolento», parola nota ai conoscitori di Arancia Meccanica, in cui, però, la violenza non è affatto il succo del contenuto concettuale della trama, ma un espediente.

In effetti la violenza è sempre un espediente di altro e non è mai fine a se stessa. Questo genere di contenuto violento non è da censurare, ma da mostrare, non soltanto perché è reale (la violenza efferata esiste e non rappresentarla vuol dire chiudere gli occhi su una porzione di realtà), ma anche perché rappresentarla serve per abituarci ad essa come comportamento umano possibile in ogni circostanza (qualcuno, inaspettatamente, può sempre perdere le staffe).

L’origine del titolo

Il titolo dell’ultimo lavoro del regista “pseudo-danese” è ispirato a una canzone che si intitola proprio too old to die young del musicista statunitense rock  Brother Dege. La canzone parla della ripetitività, la cui fine è ignota, della singola esistenza umana, cioè parla di un uomo (o dell’uomo?) che sente sempre il desiderio di interrompere questa incessante ripetitività a cui è costretto dalla natura stessa della vita, ma «ormai è troppo vecchio per morire giovane ora».

Èpater les bourgeois: considerazioni sulla violenza 

Basandoci sui pochi dati che abbiamo — il teaser, costruito in modo da restituire un godimento estetico più che un contenuto concettuale, è impostato come un video di fotogrammi che si susseguono rapidamente, stile The Neon Demon — possiamo avanzare l’ipotesi che il contenuto di questa serie sia la condizione esistenziale dell’uomo, denudata dall’etichetta e dal buonsenso borghese e quindi messa a nudo nella sua crudezza e autenticità. In generale uno dei leitmotiv del nostro tempo è l’oblio della legge del desiderio: nessuno sa più che vuole fare. Questo perché siamo costretti in modo quasi nazista a sopprimere le nostre volontà particolari per un presunto e mai raggiunto benessere collettivo. Lungi dall’essere una istigazione alla violenza, questo genere di contenuto è piuttosto una meditazione sulla violenza.

Violenza esteriore e violenza interiore

Insomma, ci sono tutte le premesse per fare di questa serie un altro passo avanti verso l’emancipazione dal senso di frustrazione che esercita il cielo di carta della buona condotta fine a se stessa, e a farci riflettere su come consideriamo il “male sociale” per l’individuo. Cioè la violenza che porta al rimorso e alla punizione, oppure il desiderio di far valere se stessi ad ogni costo, che porta alla prevaricazione dell’altro come deriva di una volontà di potenza socializzata. Tutto questo è un male esteriore. Nondimeno esiste un male ben peggiore, il male interiore, quello che  costringe a contorcerti le budella e fare violenza su te stesso, – quindi a commettere comunque violenza – in modo continuato, soffocando le proprie volontà particolari. Potremmo affermare che Refn è un nietzscheano? Dopo il suo Valhalla Rising (2009) si potrebbe già affermare.

Staremo a vedere.

 

Lorenzo Pampanini

Classe 1994. Laureato in Scienze Filosofiche all'Università La Sapienza di Roma.

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