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«Troy»: un riadattamento in chiave moderna

12 minuti di lettura

Troy, di Wolfgang Petersen, è uno dei film più sottovalutati e criticati dell’ultimo ventennio. La ragione, di certo, non è il cast, che senza alcun dubbio si può ben definire stellare. La schiera degli attori accoglie infatti uno straordinario Brad Pitt nel ruolo di AchilleEric Bana che interpreta EttorePeter O’Tool che impersona un Priamo devoto agli dèi e incapace di reagire; e infine una Elena e un Paride che a guardarli sembrano fatti per stare insieme anche se non si conosce la trama dell’Iliade.

Troy è una trasposizione filmica di uno dei poemi epici che ha fondato la cultura occidentale e che, per così dire, ha reso noti i Greci in tutto il mondo. E visto che, come sostiene il grande massmediologo Marshall McLuhan, ogni medium contiene in sé un altro medium, proviamo a partire facendo alcune considerazioni di contenuto.

«Troy» è fedele al poema epico?

La trama del film è la stessa del libro? Spesso si sostiene che il film preclude e soffoca la possibilità dell’immaginazione che, invece, legandosi alla fantasia consentirebbe – leggendo il libro – di rappresentare a noi stessi i volti dei personaggi e i luoghi in cui avvengono gli eventi narrati.

Il medium del film è già un mezzo di significazione che mette in scena, che rappresenta. Questa è la sua natura più propria. Per questa ragione alcuni cinefili sostengono che il film sia prima di tutto e soprattutto forma. Ancora una volta, chi sostiene questa teoria sui film si rifà a una massima di McLuhan: «il medium è il messaggio».

C’è poi da dire, rispetto al contenuto, che, in tutti i casi, il medium del film contiene in sé, pur reinterpretandolo e rielaborandolo, il medium del libro dal quale il film è “tratto”. Ma ci sono delle eccezioni: infatti raramente capita che il medium filmico sviluppi, a partire da un libro, una trama autonoma. È possibile, cioè, che il film oltrepassi la narrazione del libro; che si dilunghi e arricchisca la trama originaria, la quale diviene solo un punto di partenza per aggiungere un prosieguo inedito. Questo fenomeno prende il nome di “slittamento mitopoietico” quando il suo contenuto è di natura fantasy o epica.

Troy

In Troy fortunatamente ciò non succede. Sarebbe stata una mossa molto ardita aggiungere un prosieguo all’Iliade e all’Odissea, nonché un insulto a due capolavori di quel calibro, considerati completi e perfetti già così come si presentano. Petersen ha deciso di rielaborare in modo molto originale le due trame. E si badi, le trame sono due in quanto la narrazione dell’Iliade, come è noto, termina con il funerale di Achille e il suo prosieguo è sviluppato nell’Odissea, con Ulisse stesso che racconta la sua storia al re dei Feaci, nell’isola che oggi conosciamo con il nome di Corfù.

Troy, infatti, termina con il funerale di Achille. Achille però muore quando la città è in fiamme, quando Lacoonte ha già detto il suo «timeo Danaos et dona ferentes» (tradotta da Rosa Calzecchi Onesti con «temo i Danai, e più se portano i doni») di cui ci parla, questa volta, Virgilio nella sua Eneide. Lacoonte, indovino della città di Troia, diffida del Cavallo di Legno. Il Cavallo è infatti tutt’altro che un tributo a «Poseidone dai capelli turchesi», costruito e lasciato sulla spiaggia dagli Argivi come auspicio e tributo al dio del Mare per augurarsi un buon ritorno a casa.

Umanità e non divinità

Guardando Troy ci si accorge tuttavia di una mancanza. Mancano gli dèi. L’elemento divino non interviene mai direttamente. Gli dèi sono statue. Achille, conquista la spiaggia di Troia quasi da solo con i suoi Mirmidoni. Egli entra nel Tempio di Apollo, dio protettore di Troia e sovrano del Sole, e ordina di fare razzia delle offerte votive al dio. Un suo fidato gli consiglia di non offendere il dio e Achille di risposta, con un gesto solenne e veramente epico, estrae la sua spada e stacca di netto la testa alla statua d’oro raffigurante il dio seduto sulle scale, all’ingresso del Tempio.

Troy

Ma perché l’elemento divino è così marginale? Si tratta di una reinterpretazione attuale e moderna dell’Iliade.

«Troy»: un Achille moderno

L’Achille di Troy è l’incarnazione dell’uomo moderno: non crede in nulla di trascendente, si pensa onnipotente, non teme la morte, né la punizione degli dèi; conosce solo l’amore, la violenza e il titanismo. Achille è l’uomo che uccide il dio, l’uomo che non si riconosce membro di una comunità di adoratori di dèi e di sudditi di re. Nonostante ciò, anche Achille conserva la sua umanità: nell’amore per Briseide, ad esempio, ma anche nell’affetto per il cugino Patroclo; nel rispetto per Priamo, un re che si comporta con modestia e con genuina umanità, che conosce il rispetto anche tra nemici.

Achille di Troy è l’uomo moderno che non è del tutto assorbito dalla modernità: abbastanza scettico da negare sudditanza e adorazione, abbastanza sicuro di sé da non dover temere nulla e da tenere testa a una comunità intera in solitudine; ma non abbastanza assuefatto alla perfezione da non provare più sentimenti, da non riconoscere più il Bene dal Male, da non essere più genuinamente umano a sua volta.

L’Iliade inizia con l’ira funesta di Achille, furente per l’ingiuria subita da Agamennone, che gli ha sottratto Briseide, sacerdotessa di Apollo, la quale insieme a Criseide era stata fatta schiava dopo la razzia del Tempio. Achille fa strage nel campo acheo, uccide i suoi stessi compagni, tanto incontrollabile era l’ira e indomabile la sua forza.

Gli dèi greci oggi

Troy inizia con Agamennone che conquista la sudditanza del re di Tessaglia. Agamennone che riunifica la Grecia sotto il controllo del re di Micene, lui stesso. Il film deve ricostruire e dare un senso alla sua stessa trama in modo da prescindere, a livello argomentativo, dal medium del poema, così che anche chi non conosce la trama dell’Iliade possa attuare e dedurre una coerenza interpretativa guardando il film.

Troy

Non ci sono forze divine attive, gli dèi non giocano nessun ruolo nella trama del film, mentre al contrario sono proprio gli dèi, nel poema, a manovrarne le fila, decidendo addirittura lo sviluppo e le sorti della guerra tra gli uomini. Come sostiene Georg Wilhelm Hegel, infatti, nell’epica, gli dèi si identificano ancora col destino delle sorti degli uomini.

Per i Greci, arcaici gli dèi erano fondamentali. Per l’uomo moderno, il divino è una barzelletta culturale. L’uomo moderno è più pragmatico, sa benissimo che nella vita deve cavarsela da solo, che il divino non aiuta nessuno, perché non c’è. Friedrich Nietzsche annuncia proprio questo con la sua sentenza sulla “morte di Dio” nella Gaia Scienza. Infatti, quando Paride affronta Menelao per la mano di Elena e per porre fine alla guerra evitando una campagna logorante che rischia di protrarsi per anni, non è la dea Afrodite che confonde Menelao e gli fa andare a vuoto il colpo mortale, non è la stessa Afrodite che in una nuvola di fumo porta fuori Paride dalla battaglia. No. Paride è un vigliacco che fugge la morte. Con le parole del primo lirico greco Archiloco, per paura e per salvarsi la vita, Paride «getta lo scudo e fugge».

Che poi Apollo faccia morire Patroclo per far soffrire Achille e rendergli pane al pane per l’onta subita dal suo affronto (il taglio delle testa) non lo si capirà mai guardando il film. Che poi lo stesso Apollo faccia morire Achille medesimo durante i festeggiamenti della morte di Ettore guidando la freccia lanciata da Paride verso il tallone del Pelide, neanche questo lo si vede rappresentato. Infatti, Achille muore alla fine del film, tra le braccia del suo amore Briseide, in seguito a una freccia che trafigge il suo tallone scoccata, sì, da Paride, ma in modo del tutto inesplicato.

Conclusione

Troy rappresenta la fuga degli dèi dal mondo moderno, mostrata in un riadattamento modernizzante dell’Iliade. E infatti, già con le parole dell’incipit, pronunciate da Ulisse, si comprende che sarà un mondo del tutto umano quello che verrà rappresentato:

«L’uomo è ossessionato dalla dimensione dell’eternità
e così si domanda: le mie azioni riecheggeranno nei secoli a venire? 
Gli altri, in gran parte, sentono pronunciare i nostri nomi quando siamo già morti da tempo
e si chiedono: chi siamo stati? Con quanto coraggio ci siamo battuti. Con quanto ardore abbiamo amato».

 


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Lorenzo Pampanini

Classe 1994. Laureato in Scienze Filosofiche all'Università La Sapienza di Roma.

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