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Cosa resta nel vuoto? «L’ultimo animale» al Teatro i

In scena al Teatro i di Milano fino al 10 aprile.

6 minuti di lettura

Con-fini

Tanto un confine presuppone uno spazio entro il quale e dopo il quale il confine stesso sia posto, quanto un ultimatum, una fine, dà per scontato – e sconta le pene, paga letteralmente il fio- ciò che viene prima e cassa ogni aspettativa di qualsivoglia venturo.

Se il tempo e lo spazio sono il continuo che dà senso e fà da sfondo alle azioni, a ciò che in fondo è visibile e dà visibilità, ogni decisione è il taglio netto ovvero ciò che recide lo strascico imperturbabile dei momenti e dei luoghi, privilegiandone alcuni e relegandone altri.

Da filosofiche condizioni di possibilità, tempo e spazio diventano lacerazioni che si strappano per la volontà di appropriazione, di sentirsi parte di qualcosa o di qualcuno. «Non ho tempo, non trovo un momento libero» sono gli inni di un ego messo sottochiave da se stesso. Ragionare sulla possibilità dello spazio e del tempo, come orizzonte e non come limite quotidiano, può significare concedersi il lusso della scelta.

Domande inconfessabili

La fervida brillantezza drammaturgica di Caterina Filograno mette in scena la lotta carnale tra possibilità e realtà dello spazio e del tempo ne L’ultimo animale, al Teatro i di Milano fino al 10 aprile.

In una spazialità immaginaria che riecheggia l’eroica eco di un mondo artefatto, costruito ad hoc per i personaggi, una sorta di stanza delle confessioni più intime dove tutto è possibile e dicibile si gioca il limite, il confine tra un prima e un dopo, si pone la questione delle questioni: cosa si può domandare? Ogni domanda attende fisiologicamente una risposta o vive in maniera autonoma?

Le protagoniste, Giudi e Cristi, sono gli archetipi della costrizione. Poco importa quale sia il vincolo, a patto che sia credibile, perché il mondo immaginario del teatro non equivoca la realtà bensì può ricrearla in maniera caleidoscopica, moltiplicandone i punti di vista ed espandendola, senza mistificarla.

«L’ultimo animale» al Teatro i di Milano: lo spazio del silenzio

La capacità attoriale di Francesca Porrini e Carlotta Viscovo dà corpo e voce alle ossessioni di due coinquiline, centrando il focus della direzione immaginativa sullo spazio, come condizione della relazione tra le due. La lacerazione è netta, oltremodo visibile.

La camera di Cristi è dilaniata da un buco, da un vuoto che rappresenta il motore inesauribile di una dinamica relazionale sincopata e mancante di quell’accordo che potrebbe conciliare entrambe. Il buco della camera di Cristi lascia spazio a diversi animali, nel senso più verace e recondito e di abitanti scomodi, con un’anima, che non sanno dove collocarsi rispetto a una mancanza.

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Perché se il confine è certo e dà sicurezza, il vuoto inorridisce e fa tremare di più. Alessia Spinelli, Emilia Tiburzi e Anahì Traversi plasmano lo spazio e il tempo dei propri personaggi animali, costretti dal limbo provocato dal vuoto relazione tra Giudi e Cristi, connotando con efficace – perché spassoso e intrinsecamente simpatico- vigore l’incomunicabilità in gioco tra le protagoniste.

Vuoto e cecità

Cosa può uscire dal vuoto che si crea in una relazione fatta di incapacità di comunicare? L’acuta dinamica scenica, la scelta di una caratterizzazione forte e riconoscibile de L’ultimo animale, al Teatro i di Milano, accompagna passo a passo lo spettatore verso la scoperta di ciò che realmente, ben oltre ciò che il fittizio teatrale propone, si cela nei vuoti, nei nulla che si ergono mastodontici nella ripetizione del quotidiano.

Le ossessioni sono animali, sono animate, sono la cassa di risonanza delle anime che popolano. Renderle personaggi è la sfida di chi sapientemente crea e sa usare l’immaginazione, come capacità critica di instillare la domanda senza la presuntuosa pretesa di ricevere una risposta, ma godendo di quel silenzio che non manca di nulla e può riempire l’orrore della solitudine.

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Cosa rimane nel vuoto, nell’incapacità di comunicare? Ci si consuma, ci si annienta sino a ridursi a una sopravvivenza stagnante, ridondante delle proprie paure. Una filastrocca del terrore che arriva da un fuori, deformato dalla lontananza miope di chi, allo specchio, cerca ossessivamente la stessa immagine ogni giorno senza accorgersi di essere diventato cieco.

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Anastasia Ciocca

Instancabile sognatrice dal 1995, dopo il soggiorno universitario triennale nella Capitale, termina gli studi filosofici a Milano, dove vive la passione per il teatro, sperimentandone le infinite possibilità: spettatrice per diletto, critica all’occasione, autrice come aspirazione presente e futura.

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