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«Psicosi delle 4:48», l’ultimo grido di Sarah Kane

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8 minuti di lettura

Per scoprire Sarah Kane sarebbe meglio assicurarsi prima – se in qualche modo fosse possibile – che sia notte, preferibilmente di fine primavera, e di avere di fianco a voi un corpo caldo col quale consolarsi dopo. In alternativa, un abat-jour e Rachmaninov. Tutto questo perché leggerla è una questione di sensi, esauritasi in cinque opere a soli 28 anni, con i lacci delle sue scarpe intorno al collo. Ma le sue parole non sono morte soffocate, loro no. Boccheggiano ancora.

Cenni biografici

Nata nel 1971 nell’Essex, Inghilterra, Sarah Kane cresce in un clima evangelista, nel quale crede molto: la fede, poi tortuosamente rinnegata, sussulta per tutta la sua produzione teatrale assieme ad una forte depressione, cominciata già in età adolescenziale. Le sue cinque opere teatrali (Blasted, Phaedra’s Love, Cleansed, Crave e 4:48 Psychosis, postumo) e il suo significativo cortometraggio, Skin, dividono da sempre i critici, non abituati ad assistere a rappresentazioni incentrate su stupri, mutilazioni, estremi amori omosessuali e climi al limite dell’angoscia.

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Nonostante la depressione Sarah Kane produce molto, è attiva in circoli teatrali indipendenti e d’avanguardia, ma questo non basta per placare, quantomeno, quell’orrore dentro di sé: dopo la definitiva rottura con la compagna, nel 1999 completa Psicosi delle 4:48, una sorta di testamento, e ingerisce almeno 150 pasticche. Viene portata con urgenza al King’s College Hospital, dove morirà il 20 febbraio. Sarebbe dovuta rimanere sotto costante osservazione, ma viene lasciata sola per novanta minuti, fatali.

Le intenzioni artistiche

Non c’è niente che non si possa rappresentare in scena: affermare di non poter raccontare qualcosa, dire che non se ne può parlare, è un atto di ignoranza terribile. Volevo essere sincera fino in fondo sull’abuso e sulla violenza. Tutta la violenza presente nel testo è stata inserita attentamente nel plot ed è stata strutturata secondo un punto di vista drammaturgico che mi ha permesso di dire quello che volevo sulla guerra. La logica conclusione dell’atteggiamento che produce un caso isolato di stupro in Inghilterra è la violenza etnica in Bosnia. E la logica conclusione di come la società si aspetta che gli uomini si comportino in guerra.

Sarah Kane, Blasted

Se volessimo parlare per etichette, potremmo dire che questa drammaturga inglese appartiene alla new angry generation, una sorta di movimento spontaneo nato negli anni ’90 proprio in Inghilterra e che dà voce a quella rabbia che trova espressione, molto spesso, nella carnalità. Ma nel suo caso c’è di più: le sue parole, per quanto violente, non lasciano un retrogusto di ferro, ma di tè al gelsomino. Quello che non è mai stato compreso appieno è che Sarah non scriveva per rabbia, ma per amore. E l’amore ai suoi occhi era quella che Isabella Santacroce chiamerebbe «un’operazione chirurgica senza anestesia».

La violenza quindi non è che una conseguenza naturale di tutto questo immenso amare e, insieme, del suo soffrire; una conseguenza colma di speranza, come se la vedessimo tra le mani bianche di un bambino. O come fossero fiori in mezzo alla neve, alla mercé delle ruote. Semplicemente, l’impellente provocazione implicita nella Kane donna, unito alla sua sete di sentimenti, rimane sempre delusa e disillusa di fronte a un pubblico – dentro e fuori dal quotidiano – muto, inerme, capace di reagire se non con un’indifferente delicatezza.

Il testamento. Psicosi delle 4:48

Psicosi delle 4:48 è una personalissima apologia della depressione e un’accusa al sentimento. Il testo, concluso tre giorni prima della sua morte, si sviluppa attraverso un monologo: parole e numeri veloci, frettolosi, che si nutrono della loro contrapposizione. La protagonista, Sarah Kane stessa, indaga passo per passo l’intricato avvilupparsi dei propri tormenti a ritmo dell’alternanza tra esserci e non esserci.

«Sento il tuo dolore ma non posso prendere in mano la tua vita»: quella donna minuta con il volto angelico che ha sempre combattuto in nome di qualcosa ora non ha più alcuna forza, si appella solamente alla lucidità del sensibile, ovvero a quella precisione percettiva che spetta solo a chi sente troppo e che puntualmente viene chiamata, spaventosamente, “pazzia”.  Rimanendo sola.

«Ogni complimento mi ruba un pezzo d’anima» sussurra esasperata la protagonista, incapace ormai di rispettare la “morale comune”: la sua molteplicità percettiva l’ha portata a non sapere più distinguere, non solo il giusto dallo sbagliato ma soprattutto le parole, le frasi e a chi appartengono. Per questo motivo medici, parenti e amici assumono tutti la voce distorta di Sarah Kane, con il risultato di apparirsi una sconosciuta, ma non così tanto da non essere tormentata – ancora una volta – da questo doloroso soffrire. Con un’unica differenza: della speranza tanto cara non c’è più traccia.

L’ultima richiesta: Aprite le tende

Per favore non tagliatemi tutta per scoprire come sono morta ve lo dico io come sono morta. Cento di Lofepramina, quarantacinque di Zoplicone, venticinque di Temazepam e venti di Mellerin

Verso le ultime pagine l’amore lascia per pochi istanti spazio alla rabbia. Rabbia per il disperato tentativo del mondo di placarla, di smetterla di fare sentire. Ma come si può costringere una persona a non sentire più nulla? Non più amore, solo un elenco asettico di medicinali, condito dalla voce di tutti coloro che la rassicurano: «Amici ne hai, non ti preoccupare. Presto starai meglio». Presto starai meglio, sì, ma assicurati di non essere più un peso per nessuno. Allora tutto andrà meglio.

Poi ancora amore, l’ultimo. «Muoio per una a cui non importa / muoio per una che non sa proprio // mi stai spezzando». L’ultima confessione prima di lasciarsi andare dentro quel fiume color petrolio che è la disperazione. Ma prima, un’ultima richiesta: «per favore aprite le tende».

E così Sarah Kane ha chiuso gli occhi per sempre.

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Miriam Di Veroli

Classe 1996, studia Lettere moderne all'Università degli Studi di Milano.

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