Woman in Gold, diretto da Simon Curtis, è uscito giovedì 15 ottobre nelle sale italiane. Il film si basa su una storia vera, quella di Maria Altmann, una donna austriaca perseguitata durante il regime nazista a causa delle sue origine ebraiche, ma sopravvissuta all’Olocausto grazie alla fuga verso gli Stati Uniti con il marito. Nel film, Maria – interpretata da Helen Mirren – vive nella Los Angeles degli anni ‘90, è in apparenza felice, ma i fantasmi del suo passato la perseguitano. Una volta ritrovate alcune lettere della sorella appena deceduta, scopre che la donna aveva cercato – con scarso successo – di riacquisire un dipinto di famiglia trafugato dai nazisti. Non si tratta però di un’opera qualsiasi: è il celebre quadro Woman in Gold di Gustav Klimt e ritrae la zia delle sorelle Altmann, Adele Bloch-Bauer. Maria decide così di assumere il giovane avvocato Randol Schoenberg (Ryan Reynolds) – anche lui di origini austriache, seppur cresciuto in America – per riavere il proprio quadro. Non è semplicemente voglia di avere una rivincita personale verso le angherie naziste subite durante la giovinezza, ma anche di riappropriarsi di un’opera a cui è molto legata emotivamente, in quanto le riporta alla mente i momenti felici trascorsi con la zia. Con l’aiuto del giornalista Hubertus Czernin, Maria e Randol riusciranno, dopo lunghi processi, a ottenere giustizia.
Woman in Gold tratta quindi più temi: oltre a narrare la storia di quella che è considerata la Monna Lisa austriaca, rievoca in modo toccante un delicato momento storico, ovvero la dittatura nazista e la persecuzione degli ebrei. Lo spettatore assiste così a due trame che in più punti si intrecciano: da un lato gli anni Novanta, dove una non più giovane Maria lotta, tra dubbi e attimi di coraggio, per avere indietro un pezzo della sua famiglia; dall’altro dei ricordi che si trasformano in flashback e ci riportano alla Vienna nazista. Questi passaggi, pur non essendo i principali, sono indubbiamente i più drammatici e struggenti del film. Sebbene il tema sia stato ripreso innumerevoli volte e da infiniti punti di vista, con immagini efficaci caratterizzate dalla prevalenza del colore grigio il passato turbolento di Anna, di suo marito, della sua famiglia e di sua zia commuove lo spettatore e lo invita a riflettere.
Si assiste così alla distruzione di una famiglia benestante e appagata: dai primi ricordi felici in cui zia Adele – la donna ritratta da Klimt – dà preziosi consigli di vita alla nipotina in momenti di grande affetto, si passa poi al dramma nazista. Gli oggetti più preziosi e affettivamente più cari degli Altmann vengono sequestrati: lo Stradivari del padre, i quadri appesi in salotto, i sontuosi bicchieri, la collana che zia Adele aveva lasciato a Maria, proprio quella con cui Klimt l’aveva ritratta in tutta la sua bellezza. Se per lo spettatore la figura rappresenta solamente una delle tante modelle passate alla storie grazie al pennello di un grande artista, per Maria quel quadro ritrae una zia affettuosa, il ricordo di un’infanzia felice che le è stata rubata. La famiglia è poi costretta a dividersi: i genitori rimangono a Vienna, mentre Maria e il marito riescono a fuggire nonostante sia stato negato loro il permesso di lasciare la città. Il nazismo ha quindi rubato tutto a Maria: la serenità, l’amore dei propri genitori e, infine, il prezioso ritratto dell’adorata zia, custodito poi al museo Belvedere di Vienna. Come viene ricordato nel film, l’identità stessa di Adele viene negata: il titolo originale del dipinto viene cambiato in Woman in Gold, così da eliminare qualsiasi riferimento alle origini ebraiche della donna.
Il viaggio di Maria – sia giuridico sia umano – alla ricerca del dipinto non è così coinvolgente come i numerosi flashback, ma è comunque in grado di emozionare lo spettatore. Tornata in Austria nonostante la sua grande paura di affrontare il passato, per la donna ogni dettaglio corrisponde a un ricordo e a una nuova emozione: la firma della zia, il suo volto nel museo austriaco, le stanze in cui per anni aveva vissuto. Ad accompagnare le vicende di Maria, abbiamo la storia, seppur secondaria, dell’avvocato maldestro ma coraggioso, disposto a tutto pur di vincere la causa, perfino a lasciare il proprio lavoro e la propria famiglia.
La bizzarra coppia formata dall’avvocato giovane e inesperto e dalla signora composta ed elegante di una certa età ricorda per molti versi il film Philomena, diretto da Stephen Frears nel 2013. La critica sembra d’accordo sul fatto che la nuova coppia non sia all’altezza della precedente – Philomena è stata candidata a quattro Oscar – ma il film è comunque interessante, non solo da un punto di vista storico ed artistico ma – soprattutto – da un punto di vista umano.
La pellicola vuole poi rappresentare non un singolo caso, ma un fatto piuttosto ricorrente: è stato stimato che circa 100.000 opere sequestrate dai nazisti non abbiano ancora ritrovato il proprio proprietario. Woman in Gold ci mostra quindi non solo lo scandalo umano del regime nazista, ma anche quello artistico e culturale, fatto di opere saccheggiate e mai più restituite.
Certo la storia – pur seguendo fatti realmente accaduti, come testimoniato da alcune fotografie poco prima dei titoli di coda – è romanzata e adattata agli standard cinematografici statunitensi (sono ovviamente gli americani i “buoni” che restituiscono a Maria il suo dipinto) ma il risultato è comunque un film di grande effetto, che invita lo spettatore a riflettere e a emozionarsi di fronte a storie forse già raccontate con vari espedienti, ma da non dimenticare.
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