Che si nasca e si muoia soli è una verità che la filosofia insegna sin dalla sua origine. Non è facile accettarla. Anzi: è la filosofia stessa che, lungo tutto il suo corso sembra aver tentato costantemente di immunizzarsi da quest’idea. Imparare a morire, dice Platone nel Fedone, è ciò che significa vivere da filosofi; e si muore davvero, continua Heidegger, quando si assume il peso di questa verità. L’esistenza autentica si commisura alla sua stessa capacità di configurarsi come per-la-morte.
Ciò sembra contraddire l’altro presupposto fondamentale dell’esistenza umana, vale a dire, scrive Aristotele nella Politica, che l’uomo è un animale sociale, la cui struttura più profonda è fatta per essere condivisa, socializzata. Per Spinoza, non esiste essere umano al di fuori della sua socialità; ed anzi, tanto più l’umano s’immerge in questa rete di rapporti, tanto più egli è potente e gioioso.
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Sembra quindi palesarsi un’aporia. Da un lato, il nucleo più profondo dell’esistenza umana, fa appello ad un mistero – quello dell’essere e del non essere, della nascita e della morte – che resta inaccessibile, privato, come un linguaggio il cui vocabolario non può essere che individuale. E dell’individuale, diceva Aristotele, non si dà scienza. La solitudine è la condizione di possibilità di questo nucleo, è ciò che si rivela quando, nei momenti più intimi dell’esistenza, si avverte che nessuna parola condivisa potrà renderlo meno grave. Dall’altro lato, però, la vita è per essenza condivisa, sociale, socializzata: è strutturalmente chiamata ad uscire e accogliere ciò che del mondo ha significato e la riempie di esso. Chi vive solo è una bestia o un dio.
Qui il nodo si scioglie. Vivere, soli: perché l’esistenza è sempre attraversata dall’alterità. Vivere, soli: perché anche il tessuto sociale sprofonda davanti al mistero della nostra radicale solitudine, che fonda gli estremi dell’esistenza. Vivere soli: è nella faglia che attraversa questa polarità inscindibile, che si trova – forse – la formula della virtù. Quando Montaigne invitava a coltivare il proprio “retrobottega”, quello spazio tra sé e sé, quella no man’s land, invitava a trovare nella propria solitudine più radicale ciò che, se preservato, conduce immediatamente verso il mondo.

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