Il cinema è da sempre stato fotogenico. Senza stare a scomodare le definizioni teoriche di fotogenia avanzate da Jean Epstein e Louis Delluc, la camera da presa ha sempre preferito attori “belli” ad attori bravi, belli inteso come muniti di caratteristiche che risaltino sullo schermo anche se isolate dal resto del corpo – si pensi alle inquadrature di meravigliose mani, occhi, labbra che popolano l’immaginario cinematografico. Gli elementi naturali sono intrinsecamente fotogenici, le proiezioni sono state infestate di esplosioni, colonne di fumo, cascate e foreste sferzate dal vento da che i film sono entrati in circolazione. Certi oggetti dal fascino universale come chiavi o lame, dominano tutt’ora i sogni di qualsiasi cinefilo.
I gioielli, i dobloni di tesori sepolti e le banconote di banche rapinate sono altro elemento tradizionalmente favorito dagli autori della classicità; anche la ricchezza e l’opulenza sono stati apprezzati nel cinema classico. Ciò che certamente era considerato meno interessante da riprendere, quasi sconveniente da mostrare, era il denaro nudo. Il denaro per come è realmente, come viene utilizzato nei contesti quotidiani, quali conti sono da pagare e quali debiti da saldare non è tradizionalmente interesse del cinema classico. Sarà dagli anni Quaranta che le cose cominceranno a cambiare radicalmente, segnando una netta biforcazione nel modo in cui il cinema si occuperà del denaro: da un lato il Capitale, l’accatastarsi di “roba” nel suo senso più Verghiano, dall’altro la “Fame“, le bollette non pagate, le minacce di sfratto. Sarà compito di chi scrive tracciare una breve, e necessariamente incompleta, storia di come queste due tendenze si siano sviluppate nel corso del Novecento e degli ultimi vent’anni.
Il denaro come “Capitale”
Partiamo da un presupposto: generalmente l’opulenza ostentata da certi film mira ad autodenunciarsi implicitamente. La tendenza autoriale rimane sempre e comunque quella di condannare l’ammassare ricchezza, mentre i casi specifici che invece celebrano indiscriminatamente il lusso vanno contestualizzati a momenti storici precisi e tendenze produttive spesso legate a logiche industriali/politiche più che artistiche.
Ci sembra impossibile non partire da uno dei titoli più scontati per questo nostro percorso: il capolavoro di Erich von Stroheim Rapacità (1924). I mondi decadenti e lascivi abitati dai depravati personaggi di Stroheim sono ascrivibili a quelli dell’immaginario dannunziano; nascono quindi dal reale coinvolgimento del loro autore in tali contesti, sono carichi di autoriflessioni sulla vacuità della ricchezza che circonda i mostruosi protagonisti, e soprattutto operano secondo logiche etiche care al melodramma, in cui amanti inviperite evirano i compagni, madri isteriche soffocano i figli, mariti gelosi uccidono le mogli. Tutto ciò è portato alla sua massima potenza in Rapacità, che a differenza però delle solite ambientazioni predilette dal regista austriaco – palazzi reali, casinò, club privati – segue le vicende di un poverissimo nucleo famigliare che si ritrova improvvisamente ricco grazie ad un’enorme vincita alla lotteria. Per Erich von Stroheim la “rapacità” – in originale greed – corrompe gli spiriti e snatura l’uomo e i rapporti sociali che lo circondano: per un regista del cinema muto era naturale voler sottolineare il proprio messaggio attraverso l’uso dell’immagine stessa; ritorna quindi quella fotogenia di cui si parlava all’inizio nell’inquadratura più significativa del film: due rachitiche mani deformate in artigli giocano infantilmente con una distesa di monete, colorate direttamente sulla pellicola in modo da risplendere d’oro durante la proiezione. Le dita contorte solleticano il metallo con fare morboso, quasi fosse loro volontà goderne o farlo godere di piacere spudoratamente sessuale.
Dopo la ripresa del cinema italiano nel periodo neorealista, sarà un altro fortunato filone a prenderne il posto nei decenni successivi: la commedia all’italiana. Ovviamente fra i temi più ricorrenti in questi sguardi satirici agli anni Sessanta del Bel Paese ritorna costantemente la critica feroce del miracolo economico degli anni Cinquanta, il famoso boom. Proprio così si intitola uno dei film più intriganti di Vittorio de Sica, Il Boom (1963), caustico e spietato almeno quanto il coevo Il Sorpasso (1962). Dalla satira sarà un attimo per gli autori più politicamente impegnati passare all’impietosa condanna: l’esempio più calzante per questo nostro excursus è certamente La proprietà non è più un furto (1973) di Elio Petri, nel quale il protagonista soffre di una letterale allergia al denaro che lo porterà a castigare un volgare macellaio ricco sfondato: l’immagine più forte del film è quella di una mostra di sistemi d’antifurto alla quale il macellaio partecipa, le cui caratteristiche richiamano sia l’industria bellica pesante, sia i sistemi di sorveglianza di tante distopie fantascientifiche.
Facciamo ora un vertiginoso salto in avanti: saranno gli anni Ottanta a sancire un poderoso rinvigorirsi dell’indagine culturale sul denaro. Con l’esplodere del neoliberismo, anche nel cinema il denaro torna ad essere uno dei temi più dibattuti, specialmente negli Stati Uniti: i più disparati autori affrontano il tema fra gli Ottanta e i Novanta attraverso numerose chiavi di lettura e generi. Una poltrona per due (1983) di John Landis è uno sguardo satirico sul mondo di Wall Street, mentre l’immediatamente successivo Wall Street (1987) di Oliver Stone approccia la tematica con spirito indagatorio e drammatico. Il terreno è insomma fertile per nuovi sguardi sul mondo della finanza e del neo-consumismo sfrenato: negli ultimi quarant’anni una pletora di autori si sono soffermati a riflettere sull’impatto che la nuova cultura del lavoro ha avuto sul tessuto sociale e sulla psicologia pubblica e privata, partendo dal sociopatico yuppie protagonista di American Psycho (2000) passando per lo spregiudicato Wolf of Wall Street (2012), fino all’ossessivo broker di Diamanti Grezzi (2019). I soldi sono più che mai diventati sinonimo di malessere mentale, specialmente nelle storie che scelgono di concentrarsi sulla loro massiccia disponibilità.
Il denaro come “fame”
Torniamo ora indietro agli albori del cinema per intraprendere il secondo sentiero tracciato nella parte introduttiva: come già scritto, è negli anni quaranta che si inizierà a parlare seriamente dei problemi materiali delle persone – per quanto, specifichiamolo già numerosi autori si fossero occupati di tematiche sociali (Charlie Chaplin, Friedrich Wilhelm Murnau, Fritz Lang) – con l’avvento del Neorealismo. In risposta alla pochezza dei Telefoni Bianchi, un gruppo d’élite di giovani critici formatisi sulla rivista Cinema getterà le basi per quella che alcuni storici definiscono la prima vera Nuovelle Vague europea. Nel 1943 esce, nonostante i tentativi di censura, Ossessione di Luchino Visconti: l’Italia dipinta nel film è con l’acqua alla gola, piena di povertà e zone rurali abbandonate dalla politica. Ormai il danno è fatto: da Roma città aperta (1945) fino a Umberto D. (1952) il Neorealismo affronterà senza peli sulla lingua ogni discorso necessario per il progresso dello stato; per la prima volta nelle sale cinematografiche rimbombano i problemi reali dello stesso pubblico, il lavoro inesistente, i crampi allo stomaco del fissare l’interno di un ristorante senza potervici entrare, il bisogno morboso di lavorare per sopravvivere.
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Pare interessante notare, con una breve digressione, come il Neorealismo cinematografico sia stato una grandissima scuola e fonte di irripetibile fertilità per ogni autore, anche internazionale, disposto ad ascoltarne il messaggio, mentre il Neorealismo letterario abbia fallito completamente; il tentativo di numerosi scrittori del dopoguerra era quello di fornire un resoconto reale delle circostanze di marginalità in cui riversavano intere porzioni del paese, ma la natura stessa della letteratura ha impedito a queste voci di esprimersi in maniera “onesta:” se era efficace mostrare le condizioni disperate degli Italiani con la cinepresa, raccontarle a parole risultava complesso perché era impossibile per l’autore non imporre il proprio stile, magari ricercato, alle vicende che raccontava, di fatto mediandone il contenuto. Proprio in reazione al fallimento degli esperimenti neorealisti letterari nascerà negli anni cinquanta la florida tradizione italiana del romanzo industriale: Ottiero Ottieri, Luciano Bianciardi, Paolo Volponi, riusciranno a colmare quella distanza che gli scrittori precedenti avevano inavvertitamente creato fra loro ed il pubblico.
Se è vero che il Neorealismo cinematografico rimane tutt’ora la più importante parentesi del cinema italiano, i suoi successi in termini monetari sono stati ironicamente disastrosi: complice la difficoltà di certi prodotti (La Terra trema di Visconti, basato sui Malavoglia e parlato in dialetto siciliano strettissimo), il successo del cosiddetto Neorealismo Rosa – versione edulcorata e più romanticheggiante dell’originale – e soprattutto l’impietosa sentenza di condanna morale e politica pronunciata da un giovane Giulio Andreotti in merito a Umberto D. – scrisse dalle pagine del quotidiano Libertas dure parole di condanna contro l’approccio scarsamente costruttivo del film, riassunte in una frase da lui mai effettivamente pronunciata ma la cui potenza riecheggia nei manuali di cinema di tutta Italia: «i panni sporchi si lavano in famiglia» – il fenomeno neorealista fu sepolto già dal 1954, quando l’uscita di Senso di Visconti fu da molti indicata come il definitivo superamento della precedente fase artistica. L’esperienza italiana ha però avuto riscontro in tutto il mondo e continua ad essere il fiume carsico di qualsiasi cinematografia che si imponga di indagare una qualche condizione di marginalità. In particolare chi scrive vuole citare due titoli Hollywoodiani che vennero ostracizzati per la disinvoltura con cui si occupavano di salari, sindacati e equità: Furore (1940), meraviglioso adattamento del romanzo di John Steinbeck diretto da John Ford, e Sfida a Silver City (1954), nel quale minatori del New Mexico combattono a suon di scioperi e picchetti le tirannie dei loro padroni.
Dagli anni Sessanta, attraverso i Settanta e fino ad oggi la produzione “impegnata” si è certamente ridimensionata ma non è mai scomparsa: se il modello rimane quello del dramma neorealista, i contesti e le modalità cambiano anche radicalmente; nel 1967 assistiamo al debutto di Ken Loach, che più di ogni altro regista dedicherà il proprio cinema all’assenza di denaro. Dallo spietato Kes (1969) ai recentissimi Io, Daniel Blake (2016) e Sorry We missed you (2019), il regista britannico ha saputo aggiornarsi costantemente alle nuove modalità di sfruttamento che il mondo ha imposto sui lavoratori, dettando la linea anche per tanti altri suoi colleghi divenuti ormai beniamini dei circuiti festivalieri internazionali: il giapponese Hirokazu Kore-eda, i francesi Jean-Pierre e Luc Dardenne, il nostrano Matteo Garrone, tutti hanno un qualche debito con la brutalità e la tenerezza di Ken Loach.
Per concludere, pare consono menzionare il film che più di qualsiasi altro nella storia del cinema mondiale si è fatto carico del peso del denaro: L’Argent (1983) di Robert Bresson. La freddezza del film, veicolata tramite laconiche inquadrature fisse e quasi totale inespressività attoriale, rispecchia alla perfezione la crudeltà del mondo osservato da Robert Bresson; tutto ha inizio per una banconota contraffatta che due adolescenti borghesi in vena di stupide avventure utilizzano per ingannare la commessa di un negozio di fotografia. Da lì, tramite una serie di eventi che hanno del Kafkiano – in realtà il film è tratto dall’omonimo racconto di Lev Tolstoj -, la colpa ricadrà su un innocente proletario che vedrà la sua vita distrutta da un pezzo di carta senza alcun valore. Alla base del film vi è già una tesi di sconcertante forza: non solo i soldi esercitano un enorme potere sulla vita umana per il loro attribuito valore economico, essi sono diventati parte tanto integrante della quotidianità da conferire valore simbolico e morale anche a copie contraffatte che non hanno nessun valore intrinseco. Non è un furto a distruggere l’idraulico protagonista, ma l’accusa di contraffazione: non viene quindi incriminato dal possedere illegalmente valore che non gli appartiene, ma dalla blasfemia dell’aver creato un “falso idolo,” imitazione senza effettivo valore di un dio la cui offesa va pagata con la vita.
Robert Bresson più di qualsiasi altro regista è riuscito a riconoscere la potenza cinematografica delle mani: tutta la sua filmografia è costellata da mani ammanettate, congiunte in preghiera, infilate nelle tasche altrui, e L’Argent non è certo da meno. Al regista interessa più di tutto il letterale “passaggio di mano” delle banconote, come i corpi non si tocchino fra loro perché gli unici gesti che compiamo gli uni verso gli altri siano quelli per porgere o afferrare denaro altrui. Dalle mani contorte di Rapacità, a quelle paurosamente algide de L’Argent, ogni volta che al cinema le dita finiscono per stringere del denaro sappiamo che la situazione è in una qualche misura destinata a diventare irrecuperabile.

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