Giovanni Verga, figura centrale del Verismo italiano, ha esplorato con profondità il rapporto tra l’uomo e il progresso e non solo. Il Verismo, in quanto corrente che mutua dal Naturalismo l’aspetto realista, ha rivoluzionato il modo di raccontare la verità: rappresentare le classi sociali meno fortunate in un contesto di progresso che però non è sempre positivo, anzi, secondo Giovanni Verga non lo è mai.
Tra i temi fondamentali dell’opera verista vi è quello del denaro, inteso non solo come mezzo economico, ma come simbolo di potere, status, sicurezza e condanna. In Verga, il denaro si incarna nella “roba”, parola chiave della poetica verghiana, emblema dell’illusione del progresso. Questo tema si intreccia strettamente con due capisaldi del pensiero verghiano: la teoria dell’ostrica e il ciclo dei vinti.
Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba.
Giovanni Verga, La roba
La “roba” per Giovanni Verga
Il denaro nel pensiero di Giovanni Verga può riassumersi con l’idea di roba. Questa ha un significato apparentemente semplice, cioè tutto ciò che è un bene materiale, ma nelle vicende verghiane ha valore di motore che muove tutto nel mondo e nella vita sociale dei personaggi. Per esempio, nella novella intitolata proprio La roba, Mazzarò è il protagonista che attraverso anni di sacrifici riesce ad accumulare sempre più “roba” e diventare il più ricco del paese, ma tutto ciò lo rende una persona peggiore di ciò che era perché non pensa ad altro, fino a diventare folle.
Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Nè per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga.
Giovanni Verga, La roba
Anche in Mastro-don Gesualdo, romanzo che fa parte del Ciclo dei vinti, succede la stessa cosa. Il protagonista sacrifica tutto per la roba, riesce a emanciparsi apparentemente dal suo ruolo sociale, ma non ottiene felicità, tutt’altro. Il denaro non gli garantisce né integrazione sociale né libertà, lo imprigiona invece. Muore da solo ripudiato anche dalla famiglia.
Il progresso è come “un fiume in piena”
Nella prefazione al suo romanzo più famoso, I Malavoglia, Verga spiega la sua idea di progresso:
Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa di Leyra; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all’Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosie, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto.
Fin dalla prefazione capiamo come Giovanni Verga parli di progresso nei termini di fiume: è una potenza cieca e distruttrice, simile a un fiume in piena che travolge ogni cosa sul suo cammino. Nel Ciclo dei vinti, raccolta di romanzi poi rimasta incompleta dove Verga si propone di parlare di gente umile che tenta di emanciparsi, coloro che tentano di resistere al progresso vengono sommersi dal fiume. Questa visione si manifesta chiaramente ne I Malavoglia, dove la famiglia che prova a emanciparsi viene invece travolta dal progresso e lasciata indietro.
Vittime della roba
Tutto questo si collega anche alla teoria dell’ostrica: come l’ostrica sopravvive finché rimane attaccata allo scoglio, così le classi umili devono restare tali perché se provano a emanciparsi vengono travolte. La colpa di una simile situazione è la smania della roba, del denaro, cui ormai il mondo sta cedendo, in quanto la roba determina il destino di ognuno. L’uomo del popolo deve restare fedele alla propria condizione sociale. Ogni tentativo di miglioramento, di “progresso”, è visto come una sfida contro natura.
L’epopea della sconfitta raccontata nelle opere di Giovanni Verga mostra l’illusione del benessere, che dovrebbe liberare l’uomo, in realtà lo rende prigioniero delle sue ambizioni che si rivelano inutili a causa della fiumana del progresso. La ricchezza, lungi dall’essere salvezza, si trasforma nella rovina dei protagonisti, la roba si impadronisce per prima di coloro che sentono di possederla.

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