My body, my choice. Faceva così, vero? Ma di quali scelte stiamo parlando? Di qualsiasi tipo di scelta… o solo di quelle “accettabili”? Purtroppo nulla a questo mondo è tanto semplice da poter essere riassunto in un breve slogan. Motivante, certo, poter pronunciare frasi che lasciano un impatto di qualche secondo, ma che poi si disperdono, volatili, nell’oceano infinito di hashtag e motti che oggi dominano la cultura mediatica e non solo.
Ma cos’è, davvero, una scelta?
Quando c’è spazio per la cultura e il pensiero critico, spesso c’è anche spazio per la scelta. In alcune società, indossare o non indossare il velo è visto come un atto di autodeterminazione. Così come lo sono indossare una minigonna, tatuarsi, mettersi lo smalto essendo uomini, farsi crescere i capelli o radersi a zero essendo donne. Fare sesso occasionale o scegliere un solo partner per tutta la vita. Fare sesso per piacere o per denaro. E per entrambi?
È la cultura, e la società in cui queste scelte affondano le radici, a determinarne la percezione e il valore. Alcune scelte sono libere e personali, altre sono imposte dalle circostanze. Di alcune possiamo prenderci la responsabilità, su altre non abbiamo controllo. Il sex work è da sempre un terreno controverso, un ibrido tra scelte consapevoli e scelte obbligate da circostanze, il cui filo conduttore è prevalentemente il denaro. Ogni storia, ogni luogo, ogni corpo è un caso a sé un insieme di realtà profondamente diverse che caratterizzano il variegato mondo del lavoro sessuale.
Peccato e perdizione vs turismo ed economia in Thailandia
Bangkok, città del peccato e della perdizione per alcuni, una gigantesca fonte di guadagno per altri. Come molte altre città della Thailandia, offre una vasta scelta di locali notturni dove, tra musica e alcol, si intrecciano servizi sessuali. I famosi gogo bar sono il luogo dove corpo e denaro si mescolano in un mix di sudore e sacrificio per chi si espone, e di divertimento sfrenato per chi decide di comprare ciò che viene offerto.
In questa realtà la scelta di vendere il proprio corpo per denaro è spesso una scelta autonoma, senza la presenza di papponi o protettori, ma dettata da circostanze . Nel documentario Whore’s Glory, diretto da Michael Glawogger, viene esplorata la realtà del sex work in diverse zone del mondo e la Thailandia è una di queste. Qui, molte giovani si trasferiscono dalle campagne alle città, spesso senza documenti, e cominciano a prostituirsi per mandare soldi alle famiglie, dalle quali vengono però ripudiate.
Una sex worker guadagna una media mille euro al mese e la scelta tra la prostituzione o un lavoro in fabbrica per centotrenta euro al mese appare, principalmente, una scelta di sopravvivenza obbligata dal dio denaro. In Thailandia, questi locali – a differenza di altre zone del mondo – non trattengono percentuali sui guadagni delle lavoratrici, che sono libere di cambiare bar o cercare alternative. È il cliente a pagare una mancia al locale per “portare via” la ragazza. Tuttavia, né il guadagno né l’esperienza sessuale sono tutelate da nessun sistema: tutto è affidato alla lavoratrice.
Passeggiando tra le strade del quartiere a luci rosse di Bangkok, il documentario mostra con crudezza e realismo la quotidianità di queste donne: rassegnate, ironiche, ogni giorno messe alla prova dalla vita.
Dobbiamo goderci quello che facciamo, altrimenti il nostro lavoro ci rende infelici.
Dice una di loro ridacchiando, come se ridere fosse l’unica cosa che ancora le resta.
Arte, sopravvivenza e riscatto in Messico
In una puntata del podcast Más allá del rosa, una sex worker messicana racconta la propria esperienza, iniziata per caso ma trasformata nel tempo in una scelta consapevole. Tutto comincia con un lavoro da cameriera, poi una collega le parla di uno strip club dove lavora. «Soldi facili», le dice. Ma c’è molto di più.
Dopo otto anni come ballerina, oggi la pole dance per lei è diventata una forma d’arte, uno spazio di espressione per la sua sensualità e il suo corpo e una fonte di guadagno allo stesso tempo.
«All’inizio avevo paura. Pensavo che sarei stata giudicata, discriminata» racconta. Eppure, ha continuato. «Il lavoro sessuale è un lavoro. E offre opportunità a donne che prima non ne avevano.»
Molte delle sue colleghe arrivano da contesti familiari fragili, con scarsa istruzione e poche prospettive. Per alcune, il sex work rappresenta una possibilità concreta di emancipazione, per altre una gabbia da cui è difficile uscire. Tutte imparano a muoversi in un ambiente complesso, dove il rischio e la libertà si intrecciano.
Tra le prime lezioni apprese c’è quella della sicurezza: «Bisogna conoscere le proprie regole e i propri limiti per riuscire a sopravvivere. Sapere quando dire no. Se un cliente non ha il preservativo, è abuso. Punto.»
Nelle sue parole emerge una grande lucidità, la consapevolezza di chi ha dovuto fare delle scelte difficili, ma ha saputo trovare dignità anche dove altri vedono solo vergogna.
«Vorrei riuscire ad ottenere una base economica tale per poter un giorno cambiare vita. Non so quanto durerà – conclude – ma voglio godermi il percorso, con tutto quello che comporta: fatica, incertezza, ma anche forza, e libertà.»
Risorsa, consapevolezza e stigma in Italia
Il lavoro sessuale non è solo femminile e non è solo dettato da un bisogno economico, o meglio, come tutti i lavori è finalizzato al guadagno ma non solo. Nel podcast A Piece Of The Attraction, un episodio dal titolo Confessions of a Male Escort ospita Marco, escort italiano di 35 anni che lavora con clientela femminile. Con tono diretto e senza filtri, Marco racconta come è entrato nel mondo del sex work, inizialmente quasi per caso, e poi come scelta consapevole.
Le sue parole mettono in luce non solo le sfide pratiche del mestiere, la gestione delle emozioni, il rispetto dei limiti, l’equilibrio tra intimità e professionalità, ma anche gli stereotipi che ancora avvolgono chi offre servizi sessuali alle donne. Marco parla della necessità di empatia, ascolto e presenza emotiva, componenti spesso trascurate ma fondamentali nel suo lavoro.
«Molte donne non cercano solo sesso – spiega – ma qualcuno che le faccia sentire viste, desiderate, rispettate. È questo che fa davvero la differenza». La sua testimonianza rompe lo schema del sex work esclusivamente al maschile per clienti uomini, mostrando una realtà che, anche se meno raccontata, è altrettanto significativa.
Non bastano sicuramente mille parole per raccontare tutte le sfaccettature di questa realtà: una realtà fatta di emancipazione ma anche di sfruttamento, di legalità ma anche di illegalità, di liberazione e di stigma.
Un mondo che vive sospeso su un confine sottile, ancora troppo poco conosciuto e troppo spesso relegato ai margini della società. La vera speranza è che, un giorno, la scelta di dedicarsi al sex work possa essere esclusivamente volontaria, frutto di una libera decisione personale e non di costrizioni o condizioni esterne e che, in quanto tale, venga non solo riconosciuta e rispettata socialmente, ma anche regolamentata in modo equo e inclusivo, garantendo a tutte e tutti i lavoratori e lavoratrici del settore dignità, sicurezza e diritti.

Questo articolo fa parte della newsletter n. 51 – giugno 2025 di Frammenti Rivista, riservata agli abbonati al FR Club. Leggi gli altri articoli di questo numero:
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