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«La famiglia di Pascual Duarte»: il sangue come companatico della vita

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11 minuti di lettura

Ne L’opera da tre soldi (1928) di Bertolt Brechtuno dei personaggi dell’opera, ovvero il capo dei mendicanti di Londra Jonathan Jeremiah Peachum, recita quanto segue:

Essere buono, e chi non lo vorrebbe?  
Ma, ahimè, questa è la sorte di noi vivi:  
i mezzi scarsi e gli uomini cattivi.  
Chiediamo, sì, pace e fraternità,  
ma all’atto pratico – non va, non va!   

Questi versi, che appartengono al song del finale del primo atto, sono molto esplicativi della storia di Pascual Duarte, un personaggio che ha sempre cercato di fare del bene senza riuscirci, in quanto condannato a vivere un’esistenza avvolta dal male e dalla violenza. 

Pascual Duarte è il protagonista de La famiglia di Pascual Duarte (titolo originale: La familia de Pascual Duarte), romanzo di debutto del 1942 di Camilo José Cela (1916 – 2002), scrittore spagnolo e Premio Nobel per la Letteratura nel 1989.

Dopo una prima edizione italiana pubblicata da Einaudi nel 1960 e tradotta da Salvatore Battaglia, questo romanzo è stato ripubblicato lo scorso 17 settembre 2020 da Utopia Editore (acquista), giovane realtà editoriale nata in piena emergenza Covid, che ha riproposto il romanzo nella traduzione di Battaglia attraverso un ottimo lavoro di attualizzazione della traduzione, tipico nel momento in cui si riporta in libreria un capolavoro scritto molti anni fa.

La trama de «La famiglia di Pascual Duarte» di Camilo José Cela 

Il romanzo si svolge in un villaggio nella provincia spagnola di Badajoz, situata nella comunità autonoma dell’Estremadura ai confini con il Portogallo, nei primi anni Trenta, ovvero all’inizio della dittatura franchista. Il protagonista è Pascual Duarte, e nelle sue memorie, che costituiscono gran parte del romanzo, si descrive così:

«Nacqui molti anni fa – per lo meno cinquantacinque – in un villaggio sperduto della provincia di Badajoz; il villaggio stava a circa due leghe da Almendralejo, rannicchiato sul bordo d’uno stradale uniforme e lungo come un giorno senza pane, uniforme e lungo come i giorni – di quella uniformità e lunghezza che Lei, per fortuna, non può neanche immaginare – d’un condannato a morte…».

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In queste parole possiamo leggere il fatalismo di Pascual Duarte. Egli, infatti, nasce povero in una famiglia disfunzionale con: un padre alcolizzato e violento che muore di rabbia quando Pascual era ancora giovane e una madre di costituzione facile ma sempre in preda a scatti di rabbia; una sorella, Rosario, che scappa più volte di casa per sfuggire alla miseria facendo presumibilmente la prostituta; e un fratello, Mario, che muore all’età di quattro anni affogato in una tinozza d’olio. 

Copertina de “La famiglia di Pascual Duarte”, a cura di © Utopia Editore

Tuttavia, nemmeno il matrimonio con Lola prima – da cui avrà un figlio, Pascual, che morirà a undici mesi di vita – e con Esperanza poi salveranno Pascual Duarte dalla miseria, poiché «chi è perseguitato dal destino non può sfuggirgli neanche se si nasconde sotto le pietre». Pascual Duarte è, dunque, condannato a vivere una vita di miseria, povertà, ma anche violenza, che lo condurrà fino al triste epilogo, ovvero alla carcerazione a Chinchilla, da dove scriverà le sue memorie e attenderà la condanna a morte.

Analisi della struttura del romanzo

Nonostante questo sia un romanzo di debutto, Camilo José Cela scrisse ai tempi un’opera già ben strutturata e con dei precisi rimandi alla tradizione letteraria europea. In primo luogo, la struttura del romanzo attinge a strategie già in uso nella tradizione europea.

Il romanzo è strutturato, infatti, in quattro parti: una prima nota del trascrittore, in cui quest’ultimo spiega il lavoro di rimaneggiamento apportato alle memorie di Pascual Duarte; una lettera che Pascual Duarte ha inviato al destinatario delle sue memorie, don Joaquín Barrera López Mérida, in cui Pascual dichiara il suo intento di chiedere perdono a Dio per i crimini commessi; la clausola del testamento di Barrera López; le memorie di diciannove capitoli di Pascual Duarte; un’ultima nota del trascrittore, che riporta anche le lettere del cappellano di Chinchilla Santiago Luruena e del capo della Guardia civile Cesáreo Martín.

Quello de La famiglia di Pascual Duarte non è altro che un racconto a cornice che fa uso di lettere, note del trascrittore e delle memorie del protagonista. Cela fa uso del conosciuto stratagemma del manoscritto ritrovato – che in letteratura italiana ha già usato, per esempio, Alessandro Manzoni – declinandolo in maniera del tutto nuova. Si osservi quanto scrive il trascrittore nella sua prima nota:

«Avendo trovato queste pagine che trascrivo qui di seguito a metà del ’39, in una farmacia di Almendralejo – dove Dio sa quali ignote mani le avevano depositate – mi sono via via occupato, da allora a oggi, di trascriverle e ordinarle, dato che il manoscritto – in parte per la cattiva grafia e in parte perché trovai le cartelle senza numerazione e tutte scompaginate – era poco meno che illeggibile. E voglio che risulti ben chiaro fin dal primo momento che dell’opera che sto presentando al lettore curioso non mi appartiene che la sola trascrizione; e non ho corretto né aggiunto neanche una sillaba perché ho voluto rispettare la narrazione anche nella sua forma stilistica. Ho preferito, per alcuni passaggi dell’opera troppo crudi, usare le forbici e tagliare a garanzia della parte sana. […] Il personaggio, a mio modo di vedere, e forse per il fatto che io lo traggo alla luce, è un modello di condotta; un modello non da imitare, ma da fuggire; un modello dinanzi al quale non c’è da esitare […]».

Cela, dunque, declina in maniera originale la strategia del manoscritto ritrovato. Abbiamo sì il tradizionale ritrovamento del manoscritto, ma l’originalità sta nella sua manipolazione finalizzata a rendere la storia di Pascual Duarte uno studio scientifico sul suo comportamento. Questo carattere scientifico è ribadito anche dalle lettere che il trascrittore inserisce alla fine, in cui il cappellano e il capo della Guardia civile provano a dare una loro spiegazione sul comportamento di Pascual Duarte. Inoltre, nonostante il trascrittore abbia ammesso di non aver corretto nulla dello stile, c’è da dire che comunque lo ha rimaneggiato, rendendo la confessione di Pascual, come avremo modo di vedere, non pienamente riuscita e la sua salvezza, dunque, non realizzata.

Le influenze letterarie tra determinismo e il picaresco

In questo intento metanarrativo, Camilo José Cela dimostra di saper rinnovare la tradizione letteraria del suo tempo, prendendo in prestito molti motivi e tematiche che ha saputo declinare in maniera originale. I movimenti letterari a cui Cela sembra aver attinto nello scrivere questo suo romanzo sono da un lato il Naturalismo e dall’altro l’Esistenzialismo, correnti letterarie che ispirano quello che la critica spagnola definisce Tremendismo, movimento letterario spagnolo degli anni Quaranta – di cui proprio La famiglia di Pascual Duarte è pioniere – che coniuga l’angoscia e il dolore esistenzialisti con un duro realismo fatto di scene violente e personaggi che vivono ai margini della società.

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La storia di Pascual Duarte è naturalista in quanto, se consideriamo la cornice del trascrittore e delle lettere che quest’ultimo riceve, le memorie del protagonista diventano una sorta di studio sul comportamento umano, cercando di spiegare come mai Pascual si sia lasciato trascinare dal vortice di rabbia e violenza che lo ha portato a diventare un assassino. Il fatto che il trascrittore scriva «lasciamo la parola a Pascual Duarte, che ha cose interessanti da raccontarci» ci fa capire come il trascrittore/studioso del comportamento di Pascual sparisca di fronte al documento umano. 

Pascual Duarte è un personaggio naturalista non solo per il linguaggio che usa, che impiega anche detti della tradizione popolare, ma anche per il suo fatalismo. Non è un caso che questo romanzo sia stato accostato dagli editori di Utopia Editore ai Malavoglia di Giovanni Verga, in quanto Pascual Duarte è un personaggio molto simile al giovane ‘Ntoni: entrambi sono irrequieti, insofferenti verso le proprie condizioni di miseria, ma falliscono a cambiare la propria situazione, accettando, così, con piena rassegnazione il proprio destino di “vinti”.

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Pascual Duarte, quindi, è anche esistenzialista. Qui si possono riscontrare similitudini con il Raskol’nikov di Delitto e Castigo di Fëdor Dostoëvskij. Entrambi i personaggi, infatti, sono spinti dalla propria miseria ad abbracciare il male, un male dal quale non sembra esserci via d’uscita e che rende i due degli ob-jecta, ovvero persone che invece di esistere vengono esistite e commettono le proprie azioni seguendo – con rassegnazione nel caso di Pascual, con logica nel caso di Raskol’nikov – un istinto che sarà sempre più difficile da controllare. Entrambi, però, trovano il proprio epilogo nella carcerazione, dove cercheranno di espiare la propria colpa.

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Confessione, miseria ed espiazione sono temi che incontriamo nella tradizione picaresca, che Camilo José Cela ha saputo ribaltare. Del picaro Pascal ha il fatto di vivere in miseria, in un mondo ostile e in una famiglia povera dove il padre muore quando il protagonista era ancora giovane. Bisogna anche tener presente che della tradizione picaresca Cela ha mantenuto il racconto in prima persona di Pascual Duarte raccontato in retrospettiva, ovvero raccontando episodi dalla nascita fino al suo epilogo. Se, però, la confessione del picaro sfocia nella conversione al cattolicesimo, per Pascual Duarte, invece, non sarà possibile il perdono di Dio, poiché non c’è via d’uscita dal male che ha commesso:

«Ora mi sento angosciato per avere sbagliato la mia strada, ma ormai non chiedo più neanche il perdono in questa vita. […] Non voglio chiedere la grazia, perché troppo è il male che la vita mi ha insegnato e poca è la mia volontà di resistere all’istinto. Sia fatto ciò che sta scritto nel libro dei cieli».

Pascual Duarte: nascere sotto una cattiva stella

Pascual Duarte apre così le sue memorie rivolgendosi a don Joaquín:

«Io, signore, non sono cattivo, sebbene non mi manchino le ragioni per esserlo. Tutti i mortali si nasce di una stessa pelle e tuttavia, mentre andiamo crescendo, il destino si compiace di modellarci variamente come se fossimo di cera e ci obbliga per diverse vie alla stessa meta: la morte. Ci sono uomini ai quali si ordina di camminare sulla via dei fiori e uomini a cui s’impone di trascinarsi per la via dei cardi e dei rovi. Quelli si godono un panorama sereno e all’aroma della loro felicità sorridono con il viso dell’innocente; questi altri devono soffrire il sole violento della pianura e corrugano il volto come i felini per difendersi. C’è molta differenza tra il lisciarsi le carni con il belletto e l’acqua di colonia, e adornarle invece con tatuaggi che poi nessuno dovrà più cancellare…»

Pascual Duarte inizia le sue memorie dalla fine, ovvero dalla consapevolezza che di base non si è cattivi, e nonostante si voglia dimostrarlo, il destino ci ha condannato alla miseria e alla violenza. Pascual, dunque, è condannato a vivere con la macchia indelebile dei suoi crimini. Per tutto il racconto della sua vita Pascual si mostra rassegnato di fronte alla miseria, al punto che della sua famiglia dice quanto segue:

«La verità è che la vita nella mia famiglia non aveva nulla di attraente; però, siccome non ci è dato scegliere, ma una volta nati – e prima ancora di nascere – siamo destinati chi da un lato e chi dall’altro, io cercavo di adeguarmi alla condizione che mi era toccata, che è l’unico modo per non disperarsi.»

Pascual Duarte
Copertina della prima edizione Einaudi del romanzo, a cura di © Giulio Einaudi Editore

A Pascual non resta, quindi, che accettare il suo amaro destino. Di questo amaro destino fa parte anche la morte, che aleggia ovunque nel romanzo: nella morte del padre e del fratello Mario, nella presenza del cimitero vicino alla casa in cui andrà ad abitare con Lola e all’aborto di quest’ultima prima e la morte del piccolo Pascual a undici mesi di vita. Il pensiero della morte porta Pascual ad allontanarsi dall’Estremadura per l’America partendo da Madrid, ma Pascual è destinato a far ritorno a casa sua. Se, quindi, Pascual non può fuggire dal suo istinto di violenza e morte, non gli resta che abbracciarlo:

«Fa pena pensare che le poche volte che in questa vita mi capitò di non comportarmi troppo male, quella fatalità, quella cattiva stella che, come Le ho già detto prima, pare si compiaccia ad accompagnarmi, sviò e spinse le cose a tal punto che la bontà non servì a nulla alla mia anima. Peggio ancora: non solo non mi servi a nulla, ma anzi a forza di deviare e sempre più degenerare doveva trascinarmi verso un male peggiore.»

Pascual Duarte e l’impossibilità della fuga dalla violenza e del perdono

A mano a mano che Pascual accumula disgrazie e atti di violenza – come l’uccisione della giumenta e della cagnetta Chispa oppure l’accoltellamento di Zacarías all’osteria -, Pascual accoglie sempre più la rabbia. Questa rabbia ha origine nel passato, ovvero nel suo rapporto con i genitori, nella sventura e ingiustizia di suo fratello Mario, ma continua anche nel presente, soprattutto nel momento in cui Paco López, il magnaccia di Badajoz conosciuto come Il Borioso, dopo aver disonorato la sorella Rosario ha disonorato anche sua moglie Lola. Nelle sue memorie, Pascual non scrive solo di una spina che gli trafigge il costato e che tiene viva la sua sete di sangue, ma anche il fatto di sentirsi «il petto come sconvolto da un nido di serpi e in ogni goccia di sangue delle mie vene una vipera mi mordeva la carne.»

Pascual riceve, però, qualche momento di gioia nel momento in cui si sposa per la seconda volta con Esperanza, la nipote della signora Engracia, la levatrice e curatrice del paese. Tuttavia, nonostante cerchi sempre di fuggire il male, giunge alla consapevolezza che:

«Quando incominciamo a fuggire come i caprioli, quando l’angoscia ci fa sussultare nel sonno, siamo già minati dal male; non c’è più salvezza, ormai, non c’è più rimedio. Incominciamo a cadere, vertiginosamente, per non poterci più rialzare… Forse per alzarci un po’ all’ultima ora, prima di precipitare a capofitto nell’inferno…Brutta cosa».

Pascual è ormai condannato a seguire l’inferno, a seguire il male, e deve soddisfare la sua sete di sangue e vendetta verso un mondo che con lui è stato ingiusto. Questo mondo, però, continua a essere ingiusto con lui anche alla morte. «Sebbene a sondare la sua anima si potesse intuire che altro non era che un mansueto agnello, atterrito e aizzato dalla vita», dichiara nella sua lettera il sacerdote del carcere Santiago Luruena, a Pascual è negato il perdono di Dio e l’espiazione della colpa.

Il fatto che dal manoscritto manchino le pagine finali della sua vita – forse andate veramente perdute, o forse deliberatamente tolte dal trascrittore – è significativo, in quanto anche dopo la morte Pascual resterà sempre un vinto a cui sarà negata ogni redenzione e riscatto, poiché una volta diventato assassino resterà sempre un assassino, e il «maligno vento traditore» soffierà sempre verso di lui, come quell’ombra e quella macchia di violenza e vergogna che mai lo abbandonerà marchiandolo a vita:

«È che il sangue sembra che sia il companatico della tua vita…» Quelle parole mi rimasero impresse nel profondo del cuore come a lettere di fuoco e così scolpite, come un marchio, le porterò con me fino alla tomba.»

Conclusione

La famiglia di Pascual Duarte di Camilo José Cela è uno di quei romanzi che sa bene come confrontarsi con la tradizione letteraria europea e non per declinarla in maniera originale. Lo spietato determinismo naturalista dall’altro e il dolore esistenziale dall’altro rendono Pascual Duarte un personaggio tragico. Nonostante il male che commette, siamo portati a simpatizzare con lui, poiché prodotto di una società che lo ha rifiutato, ma soprattutto prodotto di un destino di miseria e di vergogna da cui è impossibile fuggire.

Tuttavia, se a Pascual Duarte sono negati il perdono di Dio e il sollievo dal proprio destino, che ha fatto sparire quelle ultime pagine del suo manoscritto in cui forse avrebbe espiato le sue colpe, la scrittura dura, spietata, ma allo stesso elegante di Camilo José Cela lo redime e lo assolve dall’assurdità del suo destino. Abbiamo bisogno di storie come queste, che con il potere della scrittura ci dà comunque la dignità nella sconfitta e nella miseria, e Utopia Editore l’ha riportata in libreria. Bentornato Camilo José Cela; bentornato Pascual Duarte.

Immagine in evidenza: dettaglio della copertina

 


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Alberto Paolo Palumbo

Laurea magistrale in Lingue e Letterature Europee ed Extraeuropee all'Università degli Studi di Milano con tesi in letteratura tedesca.
Sente suo quello che lo scrittore Premio Campiello Carmine Abate definisce "vivere per addizione". Nato nella provincia di Milano, figlio di genitori meridionali e amante delle lingue e delle letterature straniere: tutto questo lo rende una persona che vive più mondi e più culture, e che vuole conoscere e indagare sempre più. In poche parole: una persona ricca di sguardi e prospettive.
Crede fortemente nel fatto che la letteratura debba non solo costruire ponti per raggiungere e unire le persone, permettendo di acquisire nuovi sguardi sulla realtà, ma anche aiutare ad avere consapevolezza della propria persona e della realtà che la circonda.

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