Codificazione di un congedo
Viviamo in una società in cui è a nostra disposizione, sempre, ovunque, un tutorial su qualsiasi pratica si voglia imparare. L’inazione causata dall’ignoranza non è più ammissibile. Se, però, molti di noi grazie ai numerosi tutorial di cucina hanno imparato ad impastare il pane o a preparare sofisticaste torte, c’è una cosa che nessun tutorial ha ancora insegnato: come lasciarsi.
Porre fine ad una relazione, lasciare o essere lasciati, è un’esperienza che capita a quai tutti noi nel corso della nostra vita: è un evento liminare, un rito di passaggio verso il quale ci si aspetterebbe una codificazione di norme sociali accettate, vista la rilevanza sociale del fenomeno.
D’altronde, l’inizio di una relazione è invece grandemente codificato, fatto di step intermedi, come il corteggiamento. Stride allora la mancanza di un codice per lasciarsi, un Galateo delle storie finite che ci aiuti a ad incanalare il dolore verso forme costruttive e, di conseguenza, a superarlo.
Il ruolo dei simboli nella sfera pubblica
La fine di una relazione può provocare un dolore assimilabile a quello di un lutto. La dimensione pubblica di un evento aiuta il soggetto in due modi diversi. Prendiamo l’esempio delle reputatrici, le prèfiche siciliane pagate per piangere ai funerali altrui. Analizzate magistralmente da Giuseppe Pitrè nel suo Usi natalizi, nuziali e funebri del popolo siciliano, esse dimostrano come l’elaborazione del lutto sia assai più facile quando è la collettività a prendersi carico del proprio dolore. Le manifestazioni pubbliche di dolore, servono dunque come spazio fisico e simbolico entro il quale accettare di essere fragili, con persone che hanno vissuto la nostra stessa esperienza.
Non solo: la dimensione pubblica di un lutto funge anche da meccanismo di controllo dei nostri impulsi più negativi. Sotto lo sguardo vigile della folla giudicante, il soggetto in lutto difficilmente potrà cedere alla rabbia derivante la separazione dal proprio partner.
Come osservato da Franco La Cecla in Lasciami. Ignoranza dei congedi, la mancanza di uno spazio pubblico fisico e simbolico entro il quale riversare questo dolore, induce spesso l’individuo a far sedimentare dentro di sé i suoi sentimenti più distruttivi, dove la rabbia, la vendetta, l’autolesionismo trovano spazio fertile. Ne sono un esempio le modalità di assunzione e licenziamento in ambito lavorativo. Nel neoliberalismo la gente viene assunta in maniera informale, puntando sull’elasticità mentale del candidato. Al momento del licenziamento tutto questo viene meno, lasciando spazio ad una nettezza e crudeltà che mette da parte ogni informalità.
La nostra società non è in grado di elaborare riti di uscita, in molti settori della nostra vita, come fatto notare da Luc Boltanski in L’amour et la justice comme competénces. Perché?
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Velocità e stigma della separazione
La nostra società postmoderna è fondata sulla velocità: di circolazione idee, di connessione, di spostamento. Una tale società trova, allora, il suo habitat ideale per realizzarsi in quei non-luoghi teorizzati da Marc Augé. Centri commerciali, aeroporti, stazioni di servizio si sono imposti come parte del nostro concetto postmoderno di paesaggio. Sono essi, però, privi di storia, di memoria, luoghi di passaggio dove le dimensioni individuale e collettiva si annullano. Il proliferare dei non-luoghi toglie spazio fisico a quegli spazi dove invece la propria dimensione individuale-intima e collettiva-condivisa può essere manifestata.
La mancanza di spazi fisici nei quali riversare il proprio dolore è anche la causa della mancanza di luoghi simbolici e di riti collettivi legati alla separazione. Nella nostra società, come scrive sempre Marc Augé in Piccole felicità malgrado tutto la fine di una relazione coincide non solo con un forte impatto psicologico su entrambe le parti ma anche, soprattutto, con un grande intoppo sulla strada di quella felicità promessa e venduta dal neoliberalismo. L’unità del concetto di felicità, che per molti coincide con casa, lavoro e famiglia, viene meno e nessuno sente di voler esporre in pubblica piazza questo proprio fallimento.
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Profondi addii
In definitiva, la creazione di luoghi fisici e simbolici dove elaborare il lutto e di un Galateo delle storie finite sulle modalità di separazione di un partner aiuterebbe ciascuno di noi a combattere lo stigma della fine di una relazione, ad evitare che l’odio possa covare dentro di noi o riversarsi sul partner che ci ha lasciato.
Insomma, aiuterebbe ad avvicinarci di un passo al nostro concetto di felicità: perché, a volte, sapere come lasciare un partner è la più alta manifestazione d’amore.
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Bellissime parole su un tema ancora così poco discusso eppure, purtroppo, sempre più presente nella vita di oggi
Riflessione molto interessante e stimolante. Tuttavia, mi verrebbe da chiedere perché non ci si soffermi di più sul presupposto iniziale: nella nostra società esiste un tutorial per quasi ogni cosa, tranne che per la fine di una relazione. Aggiungerei “fortunatamente”. Che esistano, da tempi immemori, forme ritualizzate per vivere il lutto e persino la gioia è un dato di fatto. Servono, come ben espresso, per frenare determinati impulsi e condividere le proprie emozioni. Che tutto ciò non esista, e non possa esistere, per quel sentimento tutto particolare che è il dolore della perdita di una persona ancora viva, di un amato che torna a essere sconosciuto, non è un caso. Non può esistere un tutorial che ci spieghi come elaborare un’emozione, perché, in quanto tale, risulta estremamente soggettiva nella sua manifestazione, nella sua intensità e persino nella sua cagione d’essere. Dunque, perché esistono invece riti e luoghi che ci aiutano a elaborare il lutto per la morte di qualcuno? Perché la morte è inevitabile e definitiva. Il dolore della separazione no. Per quanto ricorrente, può essere evitato. Per quanto drastico, può trovare rimedio.
Un luogo fisico e simbolico per elaborare la separazione, un galateo delle storie finite, possono sembrare idee confortanti ma, credo, provocherebbero il risultato opposto: l’eccessiva esposizione di sé, della propria sfera intima porterebbe a un inaridimento dell’intelligenza emotiva, ad un impoverimento delle proprie capacità di introspezione e analisi.
Per imparare a “incanalare il dolore in forme costruttive” non servono, forse, nuovi luoghi fisici e/o simbolici ma la possibilità di accedere più facilmente (ed equamente) a spazi già esistenti, come lo studio di un terapeuta, un centro artistico-ricreativo, una palestra, un museo, ecc…