Quando si parla di celebrazioni istituzionali legate ad eventi storici temporalmente a noi lontani, si usa utilizzare il termine “memoria”, accostandolo spesso a quello di “storia”. Potremmo pensare che la memoria e la storia siano più o meno la stessa cosa poiché, quando sopraggiunge l’anniversario di qualche avvenimento, siamo tutti chiamati a celebrarlo, se è un avvenimento positivo, oppure ricordarlo, se è una tragedia, pur non avendolo vissuto direttamente, come nel caso della Giornata della Memoria.
Quando a livello istituzionale si decide di ricordare un particolare evento storico diventa necessario, che anche chi non lo abbia vissuto direttamente, sia informato di cosa è successo; si parla di memoria, si creano dei giorni della memoria con relativa programmazione televisiva organizzata per l’occasione, ma nella percezione comune tali eventi sono e rimangono fatti storici da conoscere, non da ricordare. È come se la memoria – cioè ricordare – e la storia – cioè capire cosa è successo davvero – siano percepiti come la stessa cosa. Invece il punto è che non sono la stessa cosa. Scrisse Barbara Kingslover: «La memoria è una cosa complicata. È parente della verità ma non è la sua gemella». La memoria, cioè, ha che fare con la verità, ma non è identica alla verità.
La dimensione individuale della memoria
In Italia, ad esempio, un’altra giornata commemorativa è particolarmente sentita e, ancora oggi, divisiva: la festa della Liberazione dal regime fascista. Essa rimane divisiva in primo luogo perché fa appello proprio alla memoria. La memoria ha una dimensione individuale, appartiene alla sfera dell’io, dell’intimo e per questo motivo, nel processo di elaborazione di un fatto, può accadere (e accade spessissimo) che un fatto storico, cioè oggettivo, venga percepito (cioè ricordato) in maniera anche diametralmente opposta, proprio perché intervengono nel processo di stratificazione di un ricordo elementi di natura emozionale e, comunque, soggettivi.
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Nel discorso pubblico si sente spesso affermare la necessità di conservare la memoria di un dato evento per crearne una nuova, condivisa. Ma questa operazione inevitabilmente si scontra con la natura individuale della memoria. È impossibile pensare che chi ha avuto in famiglia ferventi sostenitori del nazismo e che ne abbia, quindi, sempre sentito parlare in termini positivi possa, di colpo, rimuovere tale memoria individuale in favore di una memoria collettiva, istituzionale, diffusa capillarmente attraverso i media tradizionali. Affinché certi avvenimenti non accadano più – che è il fine pedagogico del Giorno della Memoria – non è necessario fare appello alla memoria, ma alla conoscenza. È necessaria la storia.
La memoria agisce, quindi, su piani e in modi differenti dalla storia. Cosa è, allora, la storia?
La storia come astrazione
La storia è la capacità di andare al di là della memoria di ciascuno, di descrivere i punti di vista di tutti quelli che erano coinvolti in una determinata vicenda. La storia deve cercare di ricostruire la verità; un compito complicatissimo, poiché nelle vicende storiche siamo tutti, a livelli diversi, coinvolti, ciascuno con le proprie convinzioni. Fare storia vuol dire porsi un po’ al di sopra di esse e tener conto, o provare a tenere conto, di tutti i punti di vista diversi.
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Ed è proprio l’onnicomprensività del lavoro dello storico ed il suo rimanere il più imparziale possibile che rende la storia una scienza al pari, seppur diversa, delle scienze dure. A minare il ricordo di un evento storico non è, infatti, la storia, bensì la mancanza di essa, cioè la percezione che sia possibile raccontare un fatto storico da un punto di vista diverso, spesso opposto, come se fosse un ricordo poco nitido. A confermare questa tesi vi è il fatto che tutte le posizioni nate con la pretesa di diffondere “l’altra storia” o la “vera storia” scimmiottino proprio il metodo di ricerca storica, senza averne la pretesa di obiettività e, spesso, senza averne nemmeno i mezzi.
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