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Il Torneo delle Ombre: un gioco antico e irrisolto

La seconda caduta di Kabul dello scorso 15 agosto, ha riformulato le regole di un antico e irrisolto gioco internazionale. The Tournment of Shadows, il Grande Gioco, come gli inglesi soprannominarono i disegni di predominio nell'Asia centrale.

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La seconda caduta di Kabul dello scorso 15 agosto, culmine della fulminea offensiva talebana iniziata il 1 maggio, ha riformulato le regole di un antico e irrisolto gioco internazionale. The Tournment of Shadows, il Grande Gioco, come gli inglesi soprannominarono i disegni di predominio nell’Asia centrale. I nuovi attori, Cina e Pakistan, hanno allargato i confini dell’arena e rilanciato una partita in corso da duemila anni.

Il ginepraio asiatico: da Alessandro il macedone alla conquista all’orda d’oro

The Tournment of Shadows, il Torneo delle Ombre, il Grande Gioco. Fu il capitano Arthur Connolly della 6th Bengal Native Light Calvary a coniare questa fortunata ed evocativa definizione, appena prima d’inaugurare la spedizione attraverso il Caucaso, il Caspio e il Karakum, per raggiungere. Ma fu il premio Nobel Rudyard Kipling a fare del Grande Gioco lo sfondo di un intrigo spionistico nel romanzo Kim (1901), trasformando così un neologismo militare in una periodizzazione storiografica.

Sarebbe tuttavia incauto farne risalire la nascita alla seconda metà dell’Ottocento; il Torneo delle Ombre è in realtà la trasposizione moderna di un’ambizione molto più antica, la stessa che condusse Alessandro Magno alla vittoria di Gaugamela (331 a.C.) e di lì alla disfatta del primo impero multinazionale della storia nella Valle dell’Indo, attraverso la conquista della Battria, l’attuale Afghanistan, e dei potentati della steppa centro asiatica prima integrati nella Persia achemenide. Celebre e drammatico è l’attraversamento del fiume Oxus, serpente abbondantemente navigabile di duemilaseicento chilometri, sulle cui rive sarà fondata l’ennesima Alessandria. Un’altra, meno celebre di altre, viene fondata nella Battria, Alessandria Arachosia, le dimentiche rovine sulle quali oggi poggia la nota Kandahar, culla degli studenti talebani. Alessandro, fra tutti i conquistatori occidentali, è certamente colui che ha ricevuto la porzione maggiore di gloria, lungo la Via della Seta.

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Con la morte di Alessandro, alcuni satrapi – governatori locali – raccoltisi nell’Impero seleucide, maturano progressive spinte indipendentiste. Con questo spirito nasce il Regno greco-battriano, resistito per poco più di cento anni, fino all’invasione dei nomadi Yuezhi e allo spostamento in India dei governatori ellenici, ormai quasi totalmente “barbarizzati” – per usare una definizione nata all’epilogo dell’Impero romano d’Occidente. L’invasione della Transoxiana operata dal popolo nomade degli Yuezhi, provenienti del bacino del Tarim (nelle province cinesi di Xinjang e Gansu), porta alla fondazione dell’impero più vasto di quel tempo, quello dei Kusana, poi abbattuto da una confederazione di tribù altaiche etnicamente vicine a loro, i Wusun. Seguono le invasioni degli Unni e degli Alani. Come quasi tutti i paesi dell’Asia centrale, l’Afghanistan comincia il suo corso “moderno” con l’islamizzazione araba del settimo secolo. A quel tempo, Kabul era già amministrata dalla dinastia cinese dei Tang, che aveva approfittato di un vuoto di potere per insediarsi. Dalla dominazione araba si passò a quella persiana, potenza egemone nella regione, seppur a fasi alterne, fino al tardo Settecento.

Saranno i Mongoli a permeare il territorio delle semi-sconosciute ex RSS sovietiche che il mondo identifica quasi soltanto per la comune terminazione in -stan. I Khanati di Bukhara, Khiva e Khokand che inglesi e russi tenteranno a più riprese di corteggiare, acquistare e infine sottomettere, sono i figli diretti dell’Orda d’Oro, il dissolto impero di Gengiz Khan, delle successive conquiste di Tamerlano. Peter Hopkirk, grande studioso dlla Via della Seta, in apertura del trattato “Il Grande Gioco”, testo cardine nello studio dell’argomento, indica nei mongoli le principali cause dell’espansione russa in Asia. L’espansione mongola arriva a inglobare il Principato di Mosca, il Rus’ di Kiev, la Repubblica di Novgorod, la Bulgaria, l’Ungheria e parte della Polonia.

Remnants of an Army by Elizabeth Butler (1879)

L’Ottocento, l’arena del Grande Gioco

Con qualche approssimazione, si potrebbe dire che il Gioco, perlomeno nella sua fisionomia più riconoscibile agli occhi dei contemporanei, nasca in una data precisa: lo sbarco di Bonaparte ad Alessandria d’Egitto il 2 luglio 1798. La flotta francese riesce a sfuggire alle maglie inglesi, tanto da far esplodere a Londra il timore che stesse muovendo verso Capo di Buona Speranza per minacciare il gioiello della corona: l’India. Neppure la sconfitta francese nella Battaglia delle Piramidi riesce a di dissipare i timori. Tre anni dopo, con l’Europa dilaniata da una guerra fratricida, Bonaparte riceve una lettera da Pietroburgo. A inviarla è lo zar Paolo I, successore di Caterina la Grande, per ventilare al futuro imperatore l’opportunità di vendicarsi degli inglesi e sfogare i propri sogni in Oriente. Un piano d’invasione dell’India, più volte perfezionato e accantonato, circola alla corte dello zar dai tempi successivi ad Ivan il Terribile, già conquistatore dei khanati tatari di Sibir, Qasim e Kazan’, nonché della Siberia occidentale. Paolo intende liberare i sudditi cristiani tenuti in schiavitù dai khan della Transoxiana e dilagare in India da nord. Tuttavia, i consiglieri francesi e russi hanno idee molto vaghe dei punti dall’accesso al sucontinente.

Il progetto rimane allo stadio di vaneggiamento; se esiste un miraggio nella politica coloniale, questo è sicuramente la cooperazione fra giganti. Ma la partita è ormai in corso, la questione dell’Asia centrale protagonista indiscussa degli affanni europei. L’Impero britannico ha esigenza di istituire stati cuscinetto fra il Raj e la Russia, la quale, a sua volta, intende cingere in abbraccio i confini settentrionali dell’India. Ragioni analoghe a quelle che coinvolgono oggi Repubblica popolare cinese e Pakistan, collegati tra l’oro dal ghiacciaio Siachen, e all’Afghanistan dal corridoio di Vacan e dal passo del Khyber, associate alle tensioni etniche, alla ricchezza mineraria del suolo e alla “questione delle terre rare” utilizzate in superconduttori, magneti, fibre ottiche e molto altro.

Gli inglesi tentano a più riprese la corruzione dei khan di Bukhara e Khiva, in più d’una occasione perdendo gli agenti del Foreign Office inviati sotto mentite spoglie. Sono invece i russi a risultare vincitori, per quanto relativa sia la vittoria, assoggettando i discendenti della dinastia gengiskhanide. I khanati diventano prima protettorati riuniti nella nuova giurisdizione del Turkestan, nel 1873, poi parte della Repubblica Socialista Sovietica di Corasmia. Del tutto diversa è la sorte inglese in terra afghana.

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La prima guerra anglo-afghana, iniziata 1839, termina con quella che potrebbe essere la peggior disfatta britannica della storia. La spedizione di 4500 soldati, in larga parte bengalesi, accompagnata da oltre dodicimila civili, che avrebbe dovuto rovesciare l’emiro Dost Mohammad per sostituirlo con un candidato fedele a Londra, viene trucidata. Un solo soldato, il dottor William Brydon, scotennato da una scimitarra e con la testa fasciata, raggiunge a cavallo la guarnigione amica di Jalalabad, dopo un estenuante viaggio nel freddo hymalayano di gennaio. La vicenda susciterà enorme scandalo in Europa divenendo un archetipo d’eroismo che l’arte romantica prenderà subito a modello e costituirà il pretesto per la seconda guerra anglo-afghana, tra il 1878 e il 1880. Vincitori, gli inglese tentano una mediazione: il governo afghano demanda la politica estera all’Impero, che ricambierà lasciando a loro un libero controllo delle questioni interne.

Sono decenni di grande fermento geografico, le spedizioni accumulano informazioni su un territorio fino ad allora indefinito, terra di nessuno dal punto di vista politico, con morfologia che sfiora il mito. L’obiettivo della spedizione di Connoly è studiare, con analisi socio-culturali e considerazioni politiche quanto più accurate, la sconosciuta vastità che dal Caucaso porta al passo Khyber. Nella sua enorme mole di appunti, agli occhi dei posteri spicca una frase, un assunto che britannici, sovietici e americani avrebbero potuto apprendere dai geografi militari prima che dall’esperienza dei loro generali: “Se gli afghani, come nazione, si opponessero con risolutezza agli invasori, le difficoltà della marcia risulterebbero pressoché insormontabili”. La presenza diplomatico-militare britannica non riesce comunque a fermare l’avanzata zarista, stanca degli insuccessi diplomatici, che porta alla creazione della regione del Turkestan, sotto il mandato di Konstantin von Kaufman.

Vasilij Vasil’evič Vereščagin, “La presa di Khiva”

Il Torneo delle ombre e la storia recente: la disfatta russa

I bolscevichi riconquistano il Khanato di Khiva durante la guerra civile, strappandola agli insorti musulmani sobillati dalle divisioni dell’Armata Bianca che hanno riparato in oriente. Nel 1923 viene istituita la Repubblica Sovietica Popolare Corasmia, scorporata due anni dopo nelle RSS uzbeka e turkmena, e nella Repubblica Socialista Sovietica Autonoma Karakalpaka, soppressa nel 1991 per essere inglobata nella Repubblica dell’Uzbekistan indipendente. Mosca considera l’Asia centrale come la periferia meridionale della sua immensa gonna protettrice, e il governo sovietico, seppur diversamente vestito, continuerà la tradizione.

Negli anni Settanta, l’Afghanistan è sostanzialmente indipendente, ma di fatto ancora preda degli interessi stranieri e dipendente dai loro finanziamenti. Mohammed Daud Khan, nel 1973, rovescia la monarchia di suo cugino divenendo il primo presidente del paese. Nonostante le sovvenzioni sovietiche al suo progetto riformatore, quello tra Daud Khan e Breznev è un matrimonio destinato a naufragare presto. I finanziamenti arrivarono cospicui all’opposizione, non senza prevedibili resistenze popolari, culminate nella Rivoluzione di Saur e nell’affermazione di del Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, maggiormente fedele a Mosca. Sono gli antefatti dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, i prodromi di dieci anni di guerra gelida e lacerante. Il Vietnam sovietico, lo battezzano i media occidentali.

Nel 1985 lo stato maggiore sovietico, nonostante l’enorme dispiego di uomini e mezzi, è perfettamente consapevole dell’irrecuperabilità del conflitto, che diviene una delle forze che concorrono alla caduta del Muro. L’invasione dell’Afghanistan ha tanto lo scopo di rafforzare il comunismo in Asia quanto quello di isolare i paesi limitrofi dall’influenza della neonata Repubblica Islamica dell’Iran. Nonostante la secolare ostilità degli afghani verso i vicini persiani, il crescere del fondamentalismo islamico all’interno e in prossimità dei suoi confini preoccupa l’Unione Sovietica ben più di qualunque fantasioso scontro nucleare. I mujahiddin ricevono l’appoggio diretto di Stati Uniti, Arabia Saudita e Pakistan, le fazioni riescono ad approssimare un fronte comune destinato a sfaldarsi con la ritirata degli invasori. Il terreno è maturo per una nuova guerra civile fra Talebani e l’Alleanza del Nord di Ahmad Shah Massoud, il seme del terrorismo islamico è piantato e la storia destinata a ripetersi.

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Giacomo Cavaliere

Giacomo Cavaliere è nato a Torino il 16 luglio 1995 ed è studente della facoltà di Storia presso l'Università Statale di Milano. In passato si è occupato di esposizioni collettive e personali d'arte contemporanea, sia in qualità di curatore e organizzatore che di autore di critiche e recensioni per conto di artisti, spazi espositivi e gallerie. Attività che continua tutt'oggi a svolgere, principalmente tra Novara, Milano e Torino. Oggi, è autore di racconti di vario genere e tematiche, segnati da continue interazioni tra eventi realmente accaduti e personaggi di finzione o viceversa, manipolandoli in scenari di “contro-fattualità”. Alcuni racconti sono apparsi su l'inquieto, Bomarscé Malgrado le mosche e Sulla quarta corda, altri tre dovrebbero essere di prossima pubblicazione su altrettante riviste. Attualmente è editor presso la redazione di Light Magazine.

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