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Nel fra tempo | Bar Europa

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Nelle farmacie e nei negozi c’erano una scritta e una sputacchiera. «Vietato sputare per terra». Nell’Italia degli anni cinquanta il tifo veniva debellato anche grazie ad una semplice politica di educazione. Da allora, pochi decenni, tanta storia. Abbiamo proceduto a passi svelti. Tutto da capire quanti in avanti e quali indietro. Scienza e medicina le abbiamo mandate a tutta velocità, ma non solo. Con grandi falcate, da giganti. La tecnologia di pari passo. Le abbiamo comandato di fare tante cose: calcolare, pensare, decidere, scegliere il percorso, controllare. Al nostro posto.

Il comando è diventato delega. Dal nostro posto, sempre più comodi, ne abbiamo fatto un totem. Incapaci di fede in Dio e di fiducia negli uomini, ci siamo affidati. Confidenti, siamo arrivati a rivolgerle una preghiera: «Tecnica nostra, curaci dall’invecchiamento, dacci oggi la nostra immortalità». Nelle mani una corona fatta di diete, digiuni e pasticche per allungare la vita. Dita che premono tasti su tastiere per provare a salvare la coscienza in cloud. L’idea di poter battere il novecentosessantanovenne Matusalemme di almeno trentuno anni. Immortali in terra. La terribile presunzione di controllare pienamente la nostra vita, gli eventi, la natura, la vita degli altri.

Insospettabile la circostanza che il controllo fatto dominio ci potesse sfuggire di mano. Che la controllata potesse assumere il controllo sul controllore. Paradossale che mentre in prospettiva ci pensiamo immortali, nell’al di qua, un virus ci costringe alla quarantena, alla sensazione di essere impotenti, alla presa d’atto che non tutto è controllabile e prevedibile dagli algoritmi cui abbiamo delegato l’amministrazione del nostro quotidiano. Ironico che i giorni della quarantena si sovrappongano alla Quaresima.

Proprio quando ci aspettavamo dalla tecnologia ogni risposta, ne abbiamo riscontrato i limiti. Spaesati, confusi da messaggi contraddittori, irretiti, delusi da una tecnologia che si è mostrata limitata, siamo tornati ad avere fiducia nella prevenzione tanto ridicolizzata dall’antivaccinismo, nelle cure di donne e uomini, degli stessi medici e operatori sanitari tanto biasimati, messi in discussione da superficiali ricerche su Google, denunciati per avidità ed esposti alla gogna mediatica per una manciata di vendite e di ascolti.

Scossi dalla paura, lucidi come possiamo esserlo quando ci svegliamo di soprassalto, ci siamo mostrati per come siamo. Egoisti, senza scrupoli nell’approfittare della situazione e generosi. Ci siamo lasciati andare allo sconforto, abbiamo reagito, ci siamo chiusi in noi stessi, abbiamo voluto uscire in gruppo o trovarci assieme e in tanti anche quando era sconsigliato, gradualmente abbiamo chiuso i negozi, alcuni uffici, i bar. Abbiamo lasciato aperti i tabaccai, le farmacie, i generi alimentari e gli uffici che debbono restare aperti. Ci siamo adeguati alle direttive del Governo.

Lo slogan “Io sto a casa” per molti ha significato chiusura forzata della propria attività produttiva, affitto da pagare, spese da sostenere, stipendi ai dipendenti, impossibilità di incassare. Per chi lavora in analogico e a cottimo, impossibilità di lavorare. Al netto di ogni ipocrisia di cui non dovremmo fingere di essere incapaci, per coloro che lavorano in nero non per attitudine al parassitaggio ma perché, pur volendo essere messi in regola, al momento non gli è data altra scelta, per ciascuno di loro, stare a casa significa fare esperienza di un grave disagio singolo o familiare.

Quali che siano le contingenze domestiche e familiari, i credo e i non credo, ci accomunano il turbamento, la rinuncia e la sensazione che qualcosa stia cambiando, dentro e fuori di noi. Traiettorie che prescindono dalla nostra volontà, rispetto alle quali possiamo procedere per inerzia, in silenzio e rassegnati, o alle quali possiamo imprimere una forza di riappropriazione e di conquista.

Provo a spiegarmi e parto dal titolo che ho scelto per introdurre questi spunti. Nel fra tempo. Dico subito che lo spazio tra fra e tempo è voluto. Guardo avanti come ciascuno si promette e ripromette di fare. Nessuno è in grado di dire con certezza quale sarà la tenuta dei sistemi sanitari, per quanto il mondo se ne starà in quarantena, quali saranno gli effetti e che durata avranno per la società al livello economico, culturale e politico. Possiamo fare previsioni che riguardano ogni ambito della vita individuale, familiare, sociale, economica e politica di ciascuno; domandarci se e quando ci saranno le prossime elezioni, quali misure adottare per sostenere le imprese, l’occupazione, i territori, come proseguire la didattica e assicurare lo svolgimento degli esami; in che modo mettere le persone e le famiglie nelle condizioni di lavorare, di crescere i figli, di stare vicini ai propri cari; se nella convivenza alla quale siamo obbligati continueremo a distogliere lo sguardo, a non comunicare pur essendo vicinissimi, o se torneremo a guardarci negli occhi, a sentirci; se ci troveremo insopportabili e aumenterà il numero delle separazioni, o se ristabilito un contatto, in meno di un’anno, conosceremo un’impennata delle nascite.

Quel che è certo è che, prima o poi, la quarantena passerà. Non bisogna consultare gli aruspici per sapere che una buona parte di ciò che sarà dipenderà da ciò che avremo pensato, detto e fatto nel frattempo. Dal modo in cui avremo dato senso ad un periodo di sospensione temporale che ricorda i riti e le pratiche di sospensione, che è proprio della Quaresima, e che, piaccia o no, tutti avremo vissuto in quarantena.

Appesi al poco che sappiamo e penzolanti tra umori opposti per ciò che ignoriamo. In cattività, alterniamo la depressione all’euforia. Ci scriviamo centinaia di messaggi nelle chat, ci incupiamo con i tg e ci diamo appuntamento sui balconi. Mandiamo la musica a tutto volume, rivolgiamo al cielo i telefonini, applaudiamo medici e infermieri. Esorcizziamo la paura. Ci facciamo coraggio in cerca di una socialità che ora che ci manca torniamo ad apprezzare. Scopriamo che vicini di casa e dirimpettai hanno un volto ed un nome. Ci diciamo andrà tutto bene. Capita di provare sollievo quando guarisce chi non conosciamo. Di ricordarci di chi vive dalla parte sbagliata della storia. Ci sembra di capire cosa intendono gli astronauti quando ci dicono che visti dallo spazio siamo tutti parte di un’unica umanità.

Interrotti, differiti, ci ritroviamo nel fra che lega il prima al dopo per arrivare con l’adozione di piccole norme di comportamento, in generale, con la buona educazione, dove la tecnologia a distanza di quasi settanta anni dal vietato sputare per terra continua a non poter arrivare. Tempo presente per mantenere l’anonimato, allontanarsi dagli altri e da noi stessi, o per farsi animo, riconoscersi, tendersi la mano (visti i tempi, in senso figurato), sostenersi, darsi per completarsi a vicenda, correggersi, incoraggiarsi, prendersi cura, migliorarsi. Gli uni gli altri. Sospesi, nel frattempo, possiamo ristabilirci, rigenerarci, riappropriarci di quel che siamo, conquistare lo spazio della nostra esistenza, più che come super o transumani, come esseri umani.

Ne abbiamo parlato nel Bar Europa al Rock Night Show su Radio Godot con Alessandra Sannella, professoressa di sociologia e politiche sociali all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale.

Michele Gerace

Scuola "cento giovani", avvocato, presidente dell'Osservatorio sulle Strategie Europee per la Crescita e l'Occupazione, fondatore tra i fondatori di Fonderie Digitali, ideatore di "Costituzionalmente: il coraggio di pensare con la propria testa", assiduo frequentatore del Bar Europa e dell'omonima rubrica al Rock Night Show su Radio Godot, alle prese con il diritto e le politiche dell'Unione europee. Responsabile del progetto "La Fondazione Luigi Einaudi per la Scuola". Alla ricerca di un principio costituente del mondo.