L’Italia sta affrontando i giorni più difficili da quando è scoppiata l’emergenza sanitaria del Coronavirus. Nelle ultime settimane la situazione epidemiologica è visibilmente peggiorata – soprattutto nel nord Italia – ed è attualmente in rapida espansione.
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Il virus, oltre a condizionare il nostro modo di vivere, le nostre abitudini e le nostre certezze, sta causando un inceppamento dell’ingranaggio capitalistico su cui si fonda la nostra economia. A tutto ciò, si aggiunge lo stato del nostro sistema sanitario, messo a dura prova da un numero di contagi registrati che, ad oggi, si aggira agli 8.000 e cresce a un ritmo di centinaia di nuovi contagi al giorno.
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Una situazione inedita, che sta inevitabilmente toccando ognuno di noi. Ma quali sono le reazioni dei cittadini al pericolo sanitario? E quali sono gli effetti che questa emergenza sanitaria ha sulla cultura e sulle idee?
Coronavirus, le reazioni etiche: tra isolamento e riscoperta della socialità
Non è facile dare una risposta unica sulle reazioni che stiamo dimostrando da quando si è diffuso in modo così capillare il Coronavirus. La filosofia parlerebbe di “reazione etiche”, indicando il comportamento che manifestiamo una volta avvenuto un fatto.
È difficile generalizzare il problema per diversi motivi: il più significativo, forse, è che fino a poche ora fa, prima che tutto il territorio nazionale diventasse interamente “zona rossa”, il nostro Paese stava vivendo l’emergenza sanitaria in modo diverso. La Lombardia e altre 14 province del nord Italia (tra Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna) sono state messe in uno stato di isolamento, anche se spesso c’è stato chi ha cercato di trasgredire dall’indicazione del restare a casa. Nel nord del Paese erano state istituite “zone rosse” e la mobilità è stata particolarmente limitata fin dallo scorso 7 marzo, data dell’approvazione del decreto emanato dal Governo che stabilisce le restrizioni.
In altre parti d’Italia (come Roma, città in cui chi scrive abita, ndr) nelle scorse ore sembrava che la reazione etica, guidata dalla tonalità emotiva della paura, che sulle prime faceva tendere all’isolamento e alla distanza discriminatoria di coloro che ci sono più prossimi, avesse lasciando il posto a un’altra condotta morale, tutt’altro che discriminatoria, che si fonda sulla tutela dell’interazione sociale.
Ha cioè preso piede un ricorso alla socievolezza, che ricorda, per il suo intento, l’iconografia delle famose Danze Macabre realizzate nel corso del ‘300 per scongiurare la paura della morte durante l’epidemia della peste che decimava l’Europa. I cittadini imbastiscono incontri dai toni festosi e spensierati, in cui si conversa, si scherza e si manifesta la più spontanea affinità. Ciò rivela un rinnovato gusto della fraternità nel tessuto sociale: le persone riscoprono un sentito bisogno dell’altro con cui relazionarsi per diradare la paura. Questa tendenza rivela anche un comportamento tale per cui ci si fa beffe del rischio, arrivando a non dare ascolto alle misure precauzionali imposte dal Governo per ragioni di contenimento dell’epidemia, tra le quali primeggia l’evitare assembramenti di persone. Questa reazione etica, tuttavia, sta scemando in seguito alle ultime direttive del Governo, valide su tutto il territorio nazionale ed espresse dal premier Giuseppe Conte, che hanno esteso la zona “protetta” all’intera nazione con il divieto di spostamenti superflui, non giustificati, e previa autocertificazione che attesti comprovate ragioni per muoversi. Si tratta di una condizione tale per cui, ciò che è considerato un bene in sé – come la socialità e l’aggregazione – diventa un male e causa di conseguenze nefaste.
Le reazioni etiche della socievolezza sono state anche affermate in taluni casi in chiave politica come atti rivoluzionari. Tale rivendicazione della socialità come rivoluzionaria, in questo frangente di emergenza, si fonda sull’idea – espressa anche dal filosofo Giorgio Agamben in articolo del 26 febbraio apparso su Il Manifesto – per cui le imposizioni del governo sarebbero arbitrarie forme di controllo della cittadinanza piuttosto che norme di tutela della salute collettiva.
È possibile una rete sanitaria globale?
Il Coronavirus sta avendo un impatto forte sulla cultura e sta facendo nascere idee e posizioni filosofiche. Per chi scrive, la più interessante è quella prospettata da Slavoj Žižek in un articolo apparso il 27 febbraio sulla rivista RT.
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Per il filosofo sloveno il fenomeno del Coronavirus dovrebbe portare a dare corpo istituzionale all’esigenza di formare una “rete sanitaria globale” di cui l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) rappresenta un primo modello. Ciò significherebbe riuscire a dare una forma all’idea millenaria di un cosmopolitismo che superi l’organizzazione politica degli Stati-nazione nell’edificazione di organismi sovrastatuari, che si dovrebbero costruire a partire dalla risoluzione di problemi globali attraverso il principio della solidale cooperazione globale. Nelle parole di Žižek :
Ma forse un altro – e molto più benefico – virus ideologico si diffonderà e, si spera, ci infetterà: il virus del pensiero di una società alternativa, una società al di là dello stato-nazione, una società che si attualizza nelle forme della solidarietà e della cooperazione globale.
Se la sfera privata diventa un modello sociale
Dal punto di vista della filosofia socio-politica il Coronavirus ci fa fare riflessioni anche sulla dicotomia politico-sociale di pubblico e privato. Come afferma Elettra Stimilli, docente di filosofia teoretica all’Università La Sapienza di Roma, in un articolo uscito in queste ore sul blog collettivo Antinomie :
Riscopriremo la centralità della condizione domestica. Avremo la possibilità di scoprire finalmente le potenzialità politiche di cui il privato non è privo.
In un periodo storico-sociale come il nostro, in cui la libertà personale intesa come indipendenza e autodeterminazione del singolo è possibile solo in virtù di meccanismi di privatizzazione del pubblico (basti pensare a come si manifesta la libertà di espressione nella dimensione online dei social media), un evento estremo ci offre l’opportunità di tornare a vivere con intensità la nostra dimensione privata.
Il Coronavirus ci fa ripensare come ci relazioniamo con il mondo?
L’isolamento dovuto al virus potrebbe produrre una profonda rivalutazione della sfera privata come luogo di fondazione dell’identità personale, come lo spazio di vita in cui stiamo con noi stessi e con chi decidiamo di stare, senza rapporti di forza e relazioni di potere estrinseci imposti attraverso costrizioni comportamentali. Il Coronavirus, dal punto di vista culturale, potrebbe farci pensare alla sfera privata non come stato d’eccezione alla normalità della vita pubblica o come contraltare esistenziale della sfera pubblica, ma come modello sociale.
Insomma: un fenomeno epidemiologico grave come la diffusione del Coronavirus si dimostra essere anche l’opportunità di una riflessione che interessa tutti noi, da nord a sud, riflessione che si formula attraverso queste domande: quanto è legittimo che la sfera pubblica sia lo spazio della nostra vita “dove più conta che ci siamo”? È giusto che l’ambito di vita pubblica guidi le nostre scelte, formi le nostre idee e forgi il nostro abito comportamentale? È forse arrivato il momento per ripensare come stiamo nel mondo? A noi la risposta.
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