fbpx

L’Europa è dove sono adesso | Bar Europa

17 minuti di lettura

Europa, Italia, Lazio, Roma, Tor Bella Monaca, strada, bar, tavolo. L’Europa è dove sono adesso. Non altrove. Proprio qui, per strada, seduto al tavolino di un bar della città in cui vivo.

La considerazione sembra banale ma non lo è.

Lasciando da parte il fatto che generalmente tutti, accademici, politici e giornalisti compresi, non distinguiamo tra Europa e Unione europea, e cioè tra il continente e l’organizzazione, quando pensiamo ad un luogo al di fuori dell’Italia, perché dobbiamo andarci o perché da lì siamo tornati, se quel luogo si trova in un Paese europeo diciamo “vado in Europa” o sono stato in Europa come se l’Europa fosse un luogo altro da contrapporre o giustapporre a quello in cui abitiamo. 

È un modo di dire. Parole, linguaggio, espressione. Forma e sostanza. “È questo che fanno le parole: strutturano, incorniciano, inquadrano la realtà.” scrive lo storico della lingua italiana Giuseppe Antonelli sul numero 389 del la Lettura del Corriere della Sera.

Il linguaggio, la cultura, e la politica possono accorciare o aumentare la distanza tra realtà e la percezione che ne abbiamo. Restringere o ampliare lo spazio della nostra esistenza a partire dal luogo in cui viviamo.

Leggi anche:
Osservare significa misurare, interagire, essere

Quando nella società prevale la percezione diffusa, al livello individuale e collettivo, di insicurezza e smarrimento dinanzi a cambiamenti di portata globale, tendiamo a cercare conferme all’interno di ambienti rassicuranti e diminuiti della complessità del mondo fuori.

Chiusi in noi stessi entro gruppi ristretti più simili a tribù che a comunità, assumiamo comportamenti territoriali più propri di alcune specie animali che di altre, e segniamo un confine tra dentro e fuori una linea marcata odorosamente. 

Siamo tornati a regolare i nostri rapporti secondo i più semplici istinti della biologia animale, a stabilire differenze sulla base degli odori e del territorio. Abbiamo eletto a nostra patria le caverne di pregiudizi e superstizioni verso il cui fondo siamo tornati a volgere il nostro sguardo abbrutito.

Questo perché ci è parso di poter estendere alla strada di fronte casa, al quartiere, alla città, alla regione, al paese e al continente, la stessa pienezza di godimento e di possesso che la legge riconosce sui beni e sulle cose di proprietà.

Leggi anche:
La coscienza individuale e collettiva come unicità degli esseri umani

Ma essere cittadini non significa avere la piena ed esclusiva proprietà del territorio nazionale o del continente in cui si abita. Come abbiamo detto con Donatella Di Cesare, non può essere un confine a stabilire se siamo esseri umani o rifiuti umani.

Ai nostri occhi il cittadino, lo straniero e il migrante non sono la stessa persona. Allo straniero attribuiamo quell’aura esotica di chi viene da altrove e poi va via, al migrante non riconosciamo alcuna dignità.

Il cittadino è l’esclusivo proprietario del territorio nazionale in cui abita. Questo è ciò che molti di noi pensano. Che esiste una società di serie A costituita, secondo noi, da persone rispettabili ed una società di serie B costituita, sempre secondo noi, da reietti.

Niente di più falso, ottuso e vacuamente ideologico. Dobbiamo cambiare prospettiva. Considerare l’importanza, né teorica né pratica ma politica, di ritenerci tutti, come ci definisce la stessa Donatella Di Cesare, stranieri residenti.

Essere stranieri residenti è un ossimoro che fissa il principio per il quale, al di qua e al di là di qualsivoglia confine, siamo tutti esseri umani. Significa ripensare l’abitare e il risiedere. Eleggere affinità non con l’avere ma ha con l’essere.

Stranieri residenti, scritto da Donatella Di Cesare, edito da Bollati Boringhieri

“Straniero” – allo stesso modo di altre parole, per esempio “identità” o “sovranità” e tante altre che a chi legge possono venire in mente – ha assunto significati ridotti come lo spazio di pensiero nel quale ci sembra di trovare riparo.

Sottrazione di significato che non risiede soltanto nella propaganda grossolana e demagogica che evoca paure archetipiche, alimenta frustrazione e gonfia elevati consensi di breve durata, ma trova terreno nell’assenza di cultura che prelude all’afonia intellettuale e segue all’impoverimento dei significati.

Un degrado nel modo di pensare, di esprimerci che si riflette nel rapporto con gli altri, con le città e i Paesi in cui viviamo.

Il drammaturgo, esponente di Charta77 ed ex presidente della Cecoslovacchia prima e della Repubblica Ceca poi, Vaclav Havel, nell’articolo Who Threatens our Identity? pubblicato su Project Syndacate, si è domandato: «Chi è che infesta il linguaggio e la conversazione con cliché, sintassi mal strutturata ed espressioni strette che scorrono insensatamente da bocca a bocca e da penna a penna?

Chi è responsabile del linguaggio sterile degli spot pubblicitari visti su ogni muro e televisione anzi, visti ovunque senza i quali sembriamo incapaci di conoscere anche l’ora del giorno?

Questi gravi attacchi al linguaggio non sono anche attacchi alla radice delle nostre identità?» (traduzione mia).

Leggi anche:
«Arrival»: l’anatomia del terzo millennio

Nello stesso articolo Havel pone in relazione il linguaggio con la comunità e l’identità:

«[…] il concetto di comunità è composto da cose concrete. Dipende, ad esempio, dal fatto che ci prendiamo cura dell’ambiente in cui viviamo. Dipende dal fatto che un popolo lasci che le proprie città siano rovinate da una banale architettura universale priva di creatività e immaginazione.

Tale decadenza non è imposta dall’Unione europea, dal capitale globale con le sue società multinazionali o da stranieri malvagi. Tutto questo degrado fisico – come accade – è realizzato con il consenso locale e l’assistenza locale attiva. In altre parole: siamo principalmente noi stessi a contaminare la “nostra” identità – noi che dovremmo esserne protettori e tutori.» (traduzione mia)

La parole rappresentano il nostro modo di vedere le cose. Di dargli un senso, un ordine e una forma. Al pari delle dei suoni e dei segni esprimono la visione che abbiamo del mondo. Ne abbiamo parlato con l’artista Virdi. Sono la memoria che abbiamo del passato, un’ipotesi di futuro, il limite che scegliamo di oltrepassare.

Un esempio. Nel 2018 abbiamo invitato Rai Scuola a Ponticelli, periferia est di Napoli, per un Bar Europa organizzato assieme a Luca Borriello, direttore di Inward. Abbiamo conosciuto Ciro, Francesco, Fortuna, Gaia, Ilary, Ilenia, Marco, Melania, Rino, Raffaele, e Rosa. Non esagero se dico che nel Parco dei Murales sono loro la bellezza che ha la forza di riscrivere un presente, per alcuni, già scritto. Di cambiarne il futuro. Senza retorica, lo speciale che la Rai ha pubblicato su Rai Scuola ne dà un’idea.

Parco a Napoli significa anche quartiere. Grazie al programma di creatività urbana ideato e curato da Inward, Ponticelli, da quartiere tra i più difficili della città, ha visto nascere al proprio interno il Parco dei Murales che ha iniziato a trasformarne l’identità e con essa la percezione di chi ci abita e di chi lo visita.

I bambini ne vanno fieri. Dicono che il loro quartiere parla, esprime una personalità. Per i residenti è un motivo di orgoglio che quando ci pensano prende il posto della vergogna.

Da luogo di degrado punto e basta è divenuto un luogo che genera un capitale intangibile, interpersonale, sociale. Tutt’ egual song’ ‘e criature. Una base di cambiamento.

Immagine tratta dallo speciale di Rai ScuolaInward e la street art che fa rinascere la periferia di Napoli

La fragilità delle strutture sociali, l’incuria, la decadenza delle città e la tendenza a voler innalzare muri, non sono la causa ma sono la conseguenza dell’impoverimento del linguaggio, dello smarrimento della nostra identità che ci rende incerti, chiusi, respingenti. L’effetto di un’identità fraintesa come contrario di diversità.

Leggi anche:
Unità e diversità: dialogo con Giovanni Destro Bisol

L’identità non esclude la diversità e la diversità non nega l’identità. La consapevolezza che abbiamo di noi stessi, mutevole nel tempo e nel rapporto con gli altri, ci permette di crescere e progredire. Come individui e come comunità ci rende forti, inclusivi, accoglienti, aperti.

Il linguaggio ne è espressione. Causa ed effetto della civiltà. Come scrive Nicola Gardini nel bel volume Le 10 parole latine che raccontano il nostro mondo edito da Garzanti:

«Le parole formano civiltà, sono il tempo della civiltà, quel complesso di visioni concorrenti in cui, per mezzo di continui tentativi, contraddicendoci e correggendoci, perseguiamo una comune ricerca del bene. Le modificazioni del senso incarnano varietà e ricchezza di prospettive. Nessun valore è assoluto, né nella vita né nelle lingue, che della vita sono non una conseguenza, ma una delle fonti»

Leggi anche:
Iperconnessi ma sempre più distanti. C’è un’alternativa? 

Articolazione di un pensiero e di un linguaggio attraverso cui, al contempo, si esprime e si realizza una comune identità. Premessa di comunità, luogo di trasformazione, molteplice, plurale, di presa in carico di una comune eredità, di responsabilità e di azione. Spazio vitale.

  • La nostra vita è incontro. Allo stesso modo, è incontro la convivenza tra popoli, tra specie diverse, il mettersi in cammino, il tendere verso l’essere superiore che ci trascende, l’aprirsi all’altro che ci abita, l’essere umani. 

In principio c’è la relazione, dice il filosofo Martin Buber. L’identità ha bisogno della diversità e l’Io, senza il Tu, non può esistere

Ne abbiamo parlato nel Bar Europa al Rock Night Show su Radio Godot con Erino Colombi, presidente del Tecnopolo e assiduo frequentatore del Bar Europa fin dal primo che abbiamo organizzato quattro anni fa, grazie a lui e ai Tor Più Belli, a Tor Bella Monaca.

Incontro, dialogo e convivenza. L’Europa è dove sono adesso. Si chiama Patria quel luogo in cui abitiamo, al quale sentiamo di appartenere per nascita, lingua, cultura, storia, tradizioni o, semplicemente, per affinità. Questa è la definizione che ne dà la Treccani. Penso ai quartieri, alle città, alle Regioni, al Paese, al continente, in cui siamo nati, cresciuti, arrivati, in cui viviamo

Da allora l’insegna del Bar Europa è divenuta il simbolo di una bellissima comunità in movimento

Tra assidui frequentatori e nuovi avventori, il Bar Europa si è popolato di migliaia di persone provenienti da luoghi diversi e caleidoscopicamente rappresentative della società.

Assieme a loro e a chiunque altri volesse prendere parte, nell’ambito della decima edizione dell’iniziativa “Costituzionalmente: il coraggio di pensare con la propria testa”, stiamo organizzando la seconda edizione della Scuola sulla Complessità che abbiamo avviato l’anno scorso.

Un programma di incontri, in particolare, sull‘essere umano, a partire dai principi fondamentali della Costituzione e dallidea di Europa, a cavallo tra filosofia, storia, letteratura, arte, architettura e scienza, diritto ed economia.

Uno stimolo a risvegliare le nostre coscienze ad accorgerci di chi e di cosa ci circonda, a sorprenderci, indignarci e meravigliarci. A soffermarci sul significato e sul senso che attribuiamo alle immagini, alle parole ai suoni, in generale al linguaggio, e, quindi, a considerare l’importanza che le forme espressive hanno nel dare forma ai nostri pensieri e contenuto alle nostre azioni, a quella che lo storico Luigi Salvatorelli definisce la nostra comunità di cultura e di vita. 

Un invito ad agitarsi, a voler agire e prendersi cura dei diritti, delle libertà, della cultura, di tutta la bellezza che condividiamo, che è nostro preciso dovere salvaguardare e, dove possibile, accrescere.

Una rapsodia in cui si incontrano, dialogano e si riconoscono voci, comunità, storie, saper fare, esperienze. Un luogo in cui originano proposte e azioni che trasformano lo stimolo di una nuova coscienza, “non possiamo restarcene indifferenti a guardare, tutto questo ci riguarda!“, la necessità di una solidarietà di tipo nuovo, in un minuscolo ma concreto frammento di un più grande accordo che ancora non c’è e che potrebbe e dovrebbe esserci. Un patto all’interno del quale l’umanità condivida l’urgenza di prendere in carico il proprio destino in rapporto con se stessa, con le altre specie che abitano il pianeta e con il mondo stesso all’interno del quale ci è dato vivere.

 

Michele Gerace

Scuola "cento giovani", avvocato, presidente dell'Osservatorio sulle Strategie Europee per la Crescita e l'Occupazione, fondatore tra i fondatori di Fonderie Digitali, ideatore di "Costituzionalmente: il coraggio di pensare con la propria testa", assiduo frequentatore del Bar Europa e dell'omonima rubrica al Rock Night Show su Radio Godot, alle prese con il diritto e le politiche dell'Unione europee. Responsabile del progetto "La Fondazione Luigi Einaudi per la Scuola". Alla ricerca di un principio costituente del mondo.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.