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Quattro mesi di guerra in Ucraina: un bilancio difficile

A quattro mesi dallo scoppio, è difficile tracciare un bilancio della guerra in Ucraina. Come ne uscirà l'ordine mondiale dal conflitto?

9 minuti di lettura

La Russia ha già vinto? Sono passati ormai quattro mesi da quando l’esercito russo ha cominciato la guerra in Ucraina, che si sarebbe rivelata una campagna militare molto più complessa, difficile e sanguinosa di quanto molti, da entrambe le parti dello schieramento, si sarebbero mai aspettati. Le luci iniziano lentamente ad abbassarsi sul conflitto, il coinvolgimento emotivo diminuisce, le dirette tv, i giornali ed i talk show tornano ad occuparsi di altro.

Spaziano tra temi spesso più futili ed a volte invece realmente dirimenti, ricadendo così, come è triste ma normale che sia, nella quotidianità dell’informazione: la pandemia sembra riprendere piede, che succederà in autunno? Luigi Di Maio fonderà un nuovo partito? e se sì, con chi proverà ad allearsi? Come contenere l’inflazione che sta drasticamente riducendo il potere d’acquisto delle famiglie?

La guerra in Ucraina e la fine del boom mediatico

Non vi è nulla di strano in tutto ciò, alcuni anzi hanno trovato stucchevole e di cattivo gusto il modo in cui personaggi non sempre preparati hanno sfruttato il momento per dire la loro su di un tema complesso, storicamente ed eticamente impegnativo. La visibilità offerta da un avvenimento simile e la frenesia di molti conduttori trovatisi a dover riempire le ore di diretta hanno certamente fatto la loro parte. Non tutti si sono lasciati trascinare da questa deriva, e le eccezioni sono spesso state piacevoli sorprese. La spettacolarizzazione della guerra richiederebbe una riflessione profonda, sembra quasi che per alcuni consistesse in un upgrade dei classici programmi e servizi tv un po’ splatter dove si racconta con dovizia di particolari il macabro dietro ai delitti di sangue.

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Ora quel momento sembra essere passato, ma cosa è rimasto di questi quattro mesi? La sensazione, a volte, è che i fatti sul campo siano passati in secondo piano soprattutto perché è difficile raccontare quella che, sotto molti punti di vista, potrebbe sembrare una vittoria russa. Ma la cosa dipende molto dall’angolazione con la quale guardiamo al conflitto in corso, e soprattutto dai panni nei quali ci immedesimiamo.

I risultati territoriali

Dal punto di vista puramente territoriale, sembra utopia pensare che l’Ucraina dopo la guerra si affaccerà sugli stessi confini di quattro mesi fa. L’esercito russo ha fallito in quello che molto probabilmente era il suo obiettivo primario, ovvero installare un governo fantoccio a Kyiv e controllare così indirettamente l’intero paese. La cosa non dovrebbe creare scalpore, si tratta di un modo di agire consolidato, adottato a lungo dagli occidentali (noi compresi), se non che per farlo i russi hanno scelto, o hanno dovuto scegliere, un’azione militare su larga scala. Una volta fallita la conquista del nord del paese, con Kyiv e Kharkiv che hanno resistito, l’esercito russo ha riorganizzato la propria avanzata, concentrandosi sul Donbass e sulla zona costiera a sud, con l’eccezione di Odessa.

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Recentemente l’esercito ucraino ha annunciato la ritirata da Severodonetsk, città simbolo durante le ultime settimane della resistenza ucraina nel Donbass. Forse non era questo l’obiettivo iniziale che Putin aveva in mente quando ha voltato le carte, ma se la guerra finisse oggi non si potrebbe certo dire che l’Ucraina ne uscirebbe vincitrice, ed è estremamente improbabile che l’esercito recuperi anche solo una piccola parte dei territori persi. Soprattutto dal momento che gli entusiasmi occidentali sulle forniture di armi si stanno lentamente raffreddando. Appare infatti sempre più chiaro che in una guerra di lunga durata, l’esercito russo, nonostante sconti evidenti limiti organizzativi, logistici e tecnici, sia avvantaggiato nei confronti delle truppe di Kyiv, inferiori in numero ed equipaggiamenti.

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Il morale delle truppe ucraine sembrerebbe essere leggermente migliore di quelle russe, ma alla lunga l’impossibilità di ottenere congedi o semplicemente, per i reparti migliori, essere reindirizzati verso fronti a bassa intensità dove recuperare le energie, potrebbe fare la differenza. Senza contare che le catene di approvvigionamento, vero tallone d’Achille dei russi nella prima parte del conflitto, non sembrano più essere un problema così determinante ora che le truppe russe operano relativamente vicino al confine, riuscendo così a proteggersi meglio da atti di sabotaggio ed attacchi ucraini. Non va sottovalutato in questo senso anche il fatto che l’armata russa opera ora in un territorio che, quando non apertamente amico, di certo non è ostile come nei giorni del tentato assedio della capitale.

Il destino dell’Ucraina dopo la guerra

Con il tempo assumerà poi un’importanza strategica sempre più rilevante il destino di Odessa, ultimo porto ucraino sul Mar Nero di una certa rilevanza, senza il quale Kyiv perderebbe ogni sbocco sul mare. Alcuni prevedono che se dovesse accadere, l’Ucraina diventerebbe nel giro di pochi anni una sorta di stato fallito, circondato su tre lati da nemici e cuscinetto tra i paesi dell’est Europa e la Russia, senza probabilmente avere la capacità di destreggiarsi in un ruolo estremamente delicato.

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Domenica 26 giugno, inoltre, dopo mesi di relativa tregua, è stata di nuovo colpita la capitale; una decina di missili si sono abbattuti su alcuni quartieri residenziali della città. Si tratta di un avvertimento di Mosca, come a sottolineare il fatto che la partita, nelle stanze del Kremlino, non è affatto considerata chiusa, e dovremmo ormai aver imparato che l’imprevedibilità dell’orso trascende i calcoli dei costi che un’azione del genere comporterebbe.

Le sanzioni contro la Russia hanno funzionato?

I costi della guerra ci portano quindi al secondo punto: a cosa sono servite le sanzioni alla Russia? Per ora a poco, verrebbe da dire, anche se negarne l’impatto sull’economia sarebbe miope. Il rublo è ai massimi storici, ma questo fatto racconta solo una parte della storia. Il paese, se escludiamo le materie prime, sulle quali torneremo più tardi, non esporta ed importa più praticamente nulla verso i paesi occidentali. Alla lunga ciò si tradurrà, ed in alcuni casi sta già accadendo, nella mancanza di molti beni di uso comune, dalla telefonia ai sistemi di sicurezza delle automobili, fino ad arrivare a tutto il comparto del lusso. Alcune stime parlano di una recessione prevista all’8,5% per il 2022, e di un ulteriore -2,3% per il 2023. Tutto ciò, molto probabilmente, si tradurrà in un peggioramento degli standard di vita della popolazione (in molti casi già decisamente basso, cosa a favore di Mosca), ma le casse dello stato sembrano essere state finora in grado di assorbire l’impatto delle sanzioni.

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Attraverso la manipolazione dei prezzi delle materie prime, si stima che la Russia sia stata in grado di coprire i costi derivanti dalla guerra in corso, di fatto finanziata dagli acquisti occidentali, ma non solo, di petrolio e gas naturale. Agitare lo spettro di un tetto al costo del gas non ha portato finora grandi benefici all’UE, che deve per altro cautelarsi nei confronti di alcuni paesi che, come è ovvio che sia, antepongono gli interessi personali a quelli comunitari/ideali.

L’Ungheria in bilico

Paesi senza sbocco al mare, e che dipendono fortemente dalle importazioni di combustibili fossili russi come l’Ungheria di Viktor Orban, giocano sul filo della diplomazia per non soffocare. Nel caso magiaro poi, si tratta anche di una questione di sopravvivenza politica: il governo di Orban si muove da anni in una zona grigia tra occidente e Russia, pur senza avere la stazza geopolitica della Turchia, che ha tante e più frecce al proprio arco. Non è un caso in questo senso che la minaccia dell’UE di tagliare i finanziamenti se questa non dovesse adeguarsi agli standard relativi al rispetto dello stato di diritto arrivi proprio ora, dopo anni di pressing senza risultati. La sensazione è che lo stato di diritto in questo momento c’entri poco, e che il vero obiettivo di Bruxelles sia quello di mettere Budapest con le spalle al muro, costretta a scegliere tra le lusinghe di Mosca, che tutt’ora vende al paese gas e petrolio a prezzi agevolati rispetto agli altri acquirenti europei, e l’UE stessa, con il suo immenso mercato comune e i finanziamenti ad essa legati.

La guerra in Ucraina ha messo alla prova l’UE

Il presidente russo ha evidenziato i limiti dell’UE a livello politico come mai nessuno prima, ma non è detto che nel lungo periodo questo non si trasformi in una sfida che l’Unione non possa vincere. Bruxelles è stata posta brutalmente dinanzi alla propria inefficacia e irrilevanza diplomatica, se ciò dovesse essere preso come una sfida dalle istituzioni comunitarie, non è detto che con il tempo non si arrivi ad una riforma della governance che rafforzi l’UE sotto questo punto di vista. Si tratta senza dubbio di uno shock. Resta da vedere quali risultati produrrà, perché difficilmente resterà senza conseguenze.

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Il tentativo di Putin di dividere la NATO sembra essere per ora fallito, con gli USA che hanno testato con successo la lealtà degli europei, e da questo punto di vista l’invasione sembra essersi trasformata in un boomerang pericoloso per Mosca, con Svezia e Finlandia che hanno abbandonato esitazioni che erano sopravvissute a cinquant’anni di guerra fredda. L’aggressività russa ha ottenuto il contrario del risultato sperato, ma il riarmo tedesco e le speranze francesi di costruire una forza militare di stampo europeo potrebbero influenzare gli eventi sul lungo periodo.

Il revisionismo della Russia

Di lungo periodo è anche la sfida che la Russia ha deliberatamente posto con la guerra in Ucraina all’ordine liberale costituitosi a Bretton Woods e rafforzatosi dopo il crollo del muro di Berlino. Secondo il presidente russo si tratta di un sistema ormai datato, che non tiene adeguatamente conto dei centri di potere nel frattempo sorti. Si tratta di un argomento vecchio, che conta tanti detrattori ma anche molti sostenitori, come è normale che sia. Non tutti hanno colto nel medesimo modo i frutti del secolo americano, con alcuni paesi che sono rimasti a guardare, al contempo impossibilitati a prendere un certo tipo di decisioni autonome ma esclusi dall’ombrello tecnologico ed industriale a stelle e strisce.

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L’ondata revisionista è quindi cresciuta negli anni, fino a trovare nella Cina di Xi Jin Ping il rappresentante in grado di sfidare l’egemonia americana. La Russia è stata in un certo senso costretta dagli errori occidentali a scegliere di avvicinarsi alla Cina, con una delicata ma necessaria manovra di bilanciamento.

Chi vuole un altro ordine mondiale?

È da leggere in quest’ottica il recente summit dei cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), che insieme accorpano il 25% del PIL globale ed il 40% della popolazione. Andando però oltre quelli che sono i numeri grezzi, è difficile immaginare come un nuovo ordine alternativo a quello liberale possa svilupparsi sui pilastri rappresentati da questi cinque paesi.

India e Cina hanno diverse partite aperte sul tavolo, da quella che riguarda i confini contesi sull’Himalaya (che ciclicamente degenera in veri e propri scontri a colpi di mazze e pietre) alle questioni legate all’espansionismo cinese nell’Oceano Indiano e nel Pacifico, cosa che ha spinto l’India a far parte del Quad, un’alleanza di stampo militare che la vede impegnata insieme a USA, Australia e Giappone. Ciò senza contare gli enormi problemi di stabilità interna che il paese dovrà affrontare nei prossimi anni a causa della povertà, delle violenze settarie e dell’irrequieto vicino Pakistan.

Il Sud Africa resta il fiore all’occhiello dell’economia africana, ma rimane distante anni luce da poter essere considerato un paese affidabile e sul quale fondare un ordine alternativo.

La Russia sconta diverse debolezze strutturali, che abilmente di volta in volta vengono mascherate ma che nel lungo periodo saranno difficili da nascondere (demografia, economia basata sulle materie prime, esercito, estensione territoriale, eterogeneità etnica).

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Anche la Cina, seppur sia considerata stabilmente come la seconda potenza mondiale, non è esente da sfide, anche complesse, che dovrà gestire in futuro.

La questione energetica

Oltre a tutto ciò, sullo sfondo resta lo spettro concreto di un razionamento dell’energia nel prossimo autunno, elemento che farebbe sprofondare l’Ue in una crisi recessiva con pochi precedenti. Di fatto, tra pochi mesi, le maggiori economie europee non avranno ancora completato il distacco dagli idrocarburi russi, e pagheranno in una volta sola il conto di decenni di politiche energetiche miopi e prive di senno. Se la situazione non dovesse cambiare, e verosimilmente non lo farà nell’arco di tre mesi, il futuro assumerà contorni realmente preoccupanti. Ed è bene che la politica si incarichi fin da ora di preparare la popolazione ad una prospettiva di questo tipo, senza raccontare favolette sui condizionatori. Di fatto stiamo finanziando la guerra russa senza che le sanzioni abbiano un effetto concreto su di essa, e paesi già in una situazione economica complessa come l’Italia non è detto che non ne paghino le conseguenze anche dal punto di vista della stabilità sociale. Sarebbe la terza crisi economica nell’arco di quattordici anni. Se l’obiettivo era quello di mettere in ginocchio la Russia nel brevissimo periodo, allora è bene dire che l’impianto sanzionatorio attuale ha fallito, senza girarci troppo intorno.

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Non è semplice tracciare un bilancio di questi ultimi quattro mesi; come per ogni guerra, ad esclusione degli USA che hanno la fortuna di vivere in un universo parallelo, si tratta di stabilire chi stia meno peggio di altri. La Russia ha iniziato però questa campagna avendo ben chiare le possibili conseguenze, ed era pronta ad affrontarle. L’Europa è stata rigettata nella storia impreparata e con le idee confuse.

Nel lungo periodo, saremo in grado di superare questa sfida? Ci siamo sempre raccontati che la democrazia liberale sia il miglior modo di governo, o il meno peggio finora mai sperimentato, per citare Winston Churchill. Credere nella forza delle idee e attaccarvisi con determinazione è l’unica strada che l’Europa può percorrere, anche a costo di ritrovarsi fondamentalmente diversa da quella che è stata e che era fino a pochi mesi fa.

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Michele Corti

Nato a Lecco nel 1996, studente di Scienze Politiche. Amo la montagna in ogni sua veste, il vento in faccia in bicicletta, la musica e provo a destreggiarmi nella politica internazionale, cosa fortunatamente più semplice rispetto a quella italiana."

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