In queste settimane stiamo assistendo al rush finale della lunga campagna referendaria che ha avuto come protagonisti il fronte del Sì e quello del No. Entrambe le parti il più delle volte si son dimostrate tifoserie, puntando molto sugli slogan e senza entrare mai veramente nel merito della riforma. Oggi proviamo a vedere le ragioni di chi ha deciso di votare Sì. Settimana prossima, invece, le nostre pagine ospiteranno le ragioni del No.
Per superare il bicameralismo paritario
La riforma costituzionale introduce il superamento del bicameralismo perfetto (o paritario), cioè Camera e Senato avranno finalmente funzioni e poteri differenti. L’articolo 55 della Costituzione riformata stabilisce che i membri della Camera rappresenteranno la nazione e saranno gli unici titolari del rapporto fiduciario col governo. Questo perché il doppio voto di fiducia al governo, dal 1994 a oggi, in 4 elezioni su 6, ha portato a maggioranze diverse tra Camera e Senato, e negli ultimi 60 anni ha contribuito a produrre 73 governi. Questi numeri son sufficienti per comprendere le anomalie di questo modello istituzionale che di certo non aiuta la stabilità.
Il Senato invece con questa riforma rappresenterà «le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica». L’articolo 70, inoltre, stabilisce le materie che resteranno di competenza di entrambe le camere che, stando alle leggi approvate da questa legislatura dal marzo 2013 a oggi, corrispondono al 3,8% del totale (10 su 263, senza contare i decreti legge altrimenti sarebbe ancora meno). L’Italia è l’unica nazione europea e l’unica grande democrazia occidentale ad avere un sistema parlamentare in cui le due camere hanno stessi poteri e stesse funzioni.
Se vincesse il Sì, potremo finalmente dire addio ad un assetto istituzionale che rappresenta un’eccezione nel panorama dei sistemi parlamentari.
Nuovo rapporto tra Stato e regioni
Dopo la revisione del Titolo V del 2001, l’incertezza sulle competenze tra Stato e regioni ha generato circa 1500 ricorsi (120 all’anno, uno ogni tre giorni) che hanno intasato la Corte costituzionale. Le conseguenze di questo contenzioso riguardano l’efficienza del nostro ordinamento e spesso hanno rallentato la realizzazione di opere e attività che avrebbero prodotto benessere e servizi per i cittadini. L’obiettivo della riforma è quello di ridefinire, attraverso gli articoli compresi tra il 114 e il 133, ruoli e competenze di Stato e regioni con un più forte accentramento verso il potere statale, questo perché in questi 15 anni di ricorsi la Corte Costituzionale ha dato più spesso ragione allo Stato piuttosto che alle Regioni.
Quindi invece che occupare la Corte, col 40% delle sue sentenze a dirimere i conflitti tra Stato e regioni, si potrebbe lasciarle spazio per occuparsi dei diritti e delle esigenze dei cittadini. Inoltre nell’articolo 117, comma 4, è prevista la cosiddetta “clausola di supremazia” dove si afferma che «la legge dello Stato può intervenire […] quando lo richieda la tutela della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale». L’articolo 116, comma 3, prevede il cosiddetto “regionalismo differenziato”, significa che la riforma promuove le regioni più efficienti ampliando le loro competenze «purché la regione sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio».
A completare il nuovo rapporto tra Stato e regioni c’è la concezione del nuovo Senato che non sarà più “camera nazionale”, bensì rappresenterà le istanze dei territori a livello centrale. E non solo, perché il nuovo Senato dei sindaci e dei consiglieri regionali interverrà sull’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea verificando l’impatto sui territori. Chi meglio dei nostri rappresentanti territoriali potrebbe farlo?
Se vincesse il Sì, verrà quindi razionalizzato il rapporto tra Stato e Regioni, saranno eliminate le competenze concorrenti e alcune materie di fondamentale importanza come l’energia, l’istruzione e i trasporti passeranno in tra le priorità dello Stato.
Più diritti ai cittadini
Con la riforma costituzionale vengono ampliati i diritti dei cittadini, anzitutto perché le proposte di iniziativa popolare dovranno essere obbligatoriamente discusse e votate dal Parlamento nei tempi previsti dai regolamenti parlamentari.
Oggi invece le proposte di iniziativa popolare non vengono quasi mai prese in considerazione dal Parlamento, che di fatto manda “all’aria” l’impegno di cittadini che avevano raccolto le firme. A questo principio più garantista è legato l’aumento da 50.000 a 150.000 firme necessarie, questo perché nel 1948 eravamo poco più di 40 milioni e oggi siamo circa 60; inoltre tramite i nuovi mezzi tecnologici e la rete siamo facilitati nella raccolta firme.
Per i referendum abrogativi, nell’articolo 75, si afferma che se si raccolgono 800 mila firme il quorum non è legato alla maggioranza di tutti gli elettori, come oggi, ma alla maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei Deputati. Se si raccolgono invece 500.000 firme il quorum rimane l’attuale. Viene data quindi un’opportunità in più ai cittadini. Infine, nell’articolo 71 della Costituzione riformata, vengono introdotti i referendum popolari propositivi e d’indirizzo «al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche».
Se vincesse il Sì, la Costituzione garantirà maggior partecipazione dei cittadini attraverso strumenti innovativi e adeguati al nostro tempo.
Più garanzie costituzionali
La riforma costituzionale prevede una nuova forma di garanzia perché prima dell’entrata in vigore delle leggi elettorali una minoranza di parlamentari, che corrisponde ad un quarto dei deputati o un terzo dei senatori, può richiedere alla Corte Costituzionale di verificare la costituzionalità di una legge elettorale. Questo dispositivo di garanzia, previsto oggi dall’articolo 73, avrebbe “vietato” l’applicazione della legge elettorale chiamata Porcellum, giudicata incostituzionale soltanto dopo la sua applicazione. Confermare la legittimità costituzionale di una legge elettorale tramite il ricorso di un minoranza parlamentare (1/4 alla Camera e 1/3 al Senato) alla Corte significa conferire stabilità alle nostre istituzioni.
L’articolo 83 stabilisce le nuove modalità per l’elezione del Presidente della Repubblica, dove sarà necessaria la maggioranza dei due terzi dell’assemblea fino al quarto scrutinio; dalla quarta alla settima votazione saranno necessari i tre quinti (mentre oggi dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta) e dalla settima votazione in poi i tre quinti dei votanti. Con queste modalità perciò verrà alzato il quorum e di conseguenza la riforma garantirà un’elezione più condivisa.
Il secondo comma dell’articolo 64 afferma che «I regolamenti delle Camere garantiscono i diritti delle minoranze parlamentari. Il regolamento della Camera dei Deputati disciplina lo statuto delle opposizioni». Viene quindi introdotta una disposizione innovativa che attribuisce ai regolamenti parlamentari la garanzia dei diritti delle minoranze in Parlamento. Si attribuisce, al solo regolamento della Camera, la definizione di una disciplina dello statuto delle opposizioni, perché sarà la sola a dare e revocare la fiducia al governo.
Se vincesse il Sì, la Costituzione conterrà maggiori garanzie costituzionali, rafforzando in più aspetti la partecipazione dei cittadini alla vita politica e quindi la nostra democrazia.
Per ridimensionare i costi della politica
Un altro tema importante della riforma costituzionale è la riduzione dei costi della politica. In primis i senatori da 315 passeranno a 95, di cui 74 consiglieri regionali e 21 sindaci, più 5 nominati dal Presidente della Repubblica. I nuovi senatori inoltre non percepiranno alcuna indennità. Questo nuovo assetto istituzionale, stando ai conti della ragioneria dello Stato, è stimabile in circa 49 milioni di euro dei quali 40 milioni ottenuti dall’abolizione dell’indennità per i futuri senatori e i rimanenti 9 dalla cessazione della corresponsione della diaria mensile (3.500 euro mensili pro capite).
Verrà abolito il Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) che in quasi 60 anni di vita ha partorito solo undici proposte di legge, e mai nessuna è stata approvata. Oggi è composto da 64 consiglieri ma è arrivato ad averne 121, producendo in alcuni casi costi che sono arrivati a 20 milioni di euro annui.
Verranno definitivamente abolite le province, che non verranno più citate nella Costituzione riformata. Infine i consiglieri regionali non potranno ricevere un’indennità superiore a quella del sindaco del comune capoluogo, generando così un ulteriore risparmio per le casse pubbliche. Non ci saranno più i finanziamenti per i gruppi consiliari regionali.
Se vincesse il Sì, dopo anni in cui si è tanto parlato di “costi e sprechi della politica”, si arriva finalmente a tagliare qualche costo inutile, primo su tutti il Cnel.
Insomma, bisogna votare Sì non per gli slogan ma per il merito di questa riforma costituzionale e questi 5 punti elencati ne spiegano e illustrano le ragioni principali. Questa riforma è una possibilità concreta per iniziare un processo di cambiamento, inseguito invano per decenni, che possa rendere finalmente il nostro Paese più efficiente e al passo con i tempi.
Pietro Regazzoni
Comitato Basta un Sì – Under30 Lecco
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