Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) è stato tra i filosofi più importanti del secolo scorso. Tra i maggiori interpreti della fenomenologia in Francia, egli ha costantemente riflettuto – oltre che su questioni strettamente speculative, come il rapporto tra anima e corpo, la problematica della coscienza, l’idea di natura – anche sulla (sua) più stringente attualità, sulla politica, sulla storia. Le opere che ad un primo sguardo sembrano distanti da queste problematiche, in realtà ne sono strettamente intrecciate. È il caso, ad esempio, della Fenomenologia della percezione, il capolavoro merleau-pontyano del 1945 che contiene, pur in nuce, l’intero sviluppo del discorso del filosofo francese. Potremmo ad esempio chiederci: c’è una filosofia della storia nella Fenomenologia di Merleau-Ponty?
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Per rispondere a questo interrogativo, è sufficiente aprire le ultime pagine della Premessa della Fenomenologia, nel corso delle quali è proprio il problema della storia a venire introdotto dal filosofo francese. Egli scrive, discutendo della nozione husserliana di intenzionalità, che la coscienza è «progetto del mondo»: essa è
destinata a un mondo che […] non abbraccia né possiede, ma verso il quale non cessa di dirigersi […]. Il rapporto al mondo non è qualcosa che possa essere reso più chiaro da una analisi: la filosofia può solo ricollocarla sotto il nostro sguardo, offrirlo alla nostra constatazione.
La coscienza è anzitutto progetto, contatto e dialogo con il mondo, e non apprensione intellettuale di esso. Ora, è proprio grazie a questa «nozione allargata di intenzionalità», nozione che riporta la percezione sul terreno scabro dell’esistenza sensibile, che diviene comprensibile cosa sia un «avvenimento storico», ossia quell’«unico modo di esistere» dell’intenzionalità diretta verso il mondo che in esso – nell’avvenimento – si esprime. Non vi è dunque possibilità per la coscienza di abbracciare in un unico sguardo la sua dinamica progettante che si dirige verso il mondo, ma questo rapporto costituisce piuttosto un’intenzione indivisa che, dalla prospettiva allargata della storia, rende comprensibile il senso degli avvenimenti. Riportiamo per intero la citazione, che è decisiva:
in un avvenimento considerato da vicino, nel momento in cui è vissuto, tutto sembra dovuto al caso: l’ambizione del tale, questa congiuntura favorevole, quella circostanza locale sembrano essere stati decisivi. Ma le causalità si compensano ed ecco che questa polvere di fatti si agglomera, delinea una certa maniera di prendere posizione nei confronti della situazione umana, un avvenimento i cui contorni sono definiti e di cui si può parlare. […] Si deve comprendere in tutti i modi contemporaneamente, tutto ha un senso, sotto ogni rapporto ritroviamo la medesima struttura dell’essere. Tutte queste vedute sono vere a condizione che non le si isoli, che si vada sino al fondo della storia e che si raggiunga l’unico nucleo di significato esistenziale che si esplicita in ogni prospettiva. È vero, come dice Marx, che la storia non cammina sulla testa, ma è altresì vero che non pensa con i piedi. O meglio, non dobbiamo occuparci né della sua testa né dei suoi piedi, bensì del suo corpo.
C’è dunque un «corpo della storia», un’intenzionalità totale e allargata che si rende intellegibile attraverso una riconsiderazione e una reimpostazione dei rapporti tra soggetto e mondo. L’analisi fenomenologica della percezione permette così di ricollocare l’uomo sul terreno della sua esperienza primordiale del mondo, giacché «l’uomo è nel mondo, e nel mondo egli si conosce», ed è a partire da questa intenzionalità che anche la storia dev’essere compresa. Ma c’è di più. Continua infatti Merleau-Ponty:
la storia è indivisibile nella successione così come lo è nel presente. In rapporto alle sue dimensioni fondamentali, tutti i periodi storici appaiono come modificazioni di una sola esistenza o episodi di un solo dramma, e noi non sappiamo se questo dramma ha uno scioglimento. Poiché siamo nel mondo, noi siamo condannati al senso e non possiamo fare nulla né dire nulla che non assuma un senso nella storia.
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Il movimento dell’esistenza, dischiuso attraverso il ritorno fenomenologico all’esperienza percettiva, ci «condanna al senso», ossia ci impegna in un dialogo di continua ripresa e risignificazione del senso a contatto col mondo. Non si tratta tuttavia di un senso, sartrianamente, imposto alle cose e schiacciato su di esse, ma di un intreccio, di un vibrare in consonanza, di un inerire a partire dal quale, appunto, esso si genera, affondando le sue radici in un passato di sedimenti già costituito. Possiamo quindi dire che anche il problema della storia si lega, nella Fenomenologia di Merleau-Ponty, al problema, presente in Edmund Husserl ma ora da questionare in termini nuovi, della genesi del senso. Fatta chiarezza su quest’ultimo, anche il senso dell’intenzionalità storica diverrà intelligibile – un senso che tuttavia non va reperito nella forma del concetto ma, per l’appunto, riafferrato entro una dimensione d’intenzionalità totale.
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Da questa prospettiva, il fatto che Maurice Merleau-Ponty parli di un «corpo della storia» non è un semplice elemento di stile, ma il riflesso del percorso che, a partire dall’analisi della sensazione e della riabilitazione di quel «mondo della percezione» costantemente dimenticato dal pensiero critico, condurrà il filosofo francese a ripensare la dimensione della corporeità quale luogo ove avviene, per l’appunto, il contatto col mondo, e con esso la genesi del senso.
Ma il senso, secondo Maurice Merleau-Ponty e a differenza di Jean-Paul Sartre, non è il mero prodotto di una coscienza, ma l’auto-dispiegarsi dell’intreccio tra soggetto e mondo, mediato dalla struttura temporale della soggettività stessa. Scrive, ad esempio, il filosofo francese alla fine della Fenomenologia:
occorre che la mia vita abbia un senso che io non costituisco, che ci sia a rigore una intersoggettività, che ciascuno di noi sia un anonimo nel senso della individualità assoluta e in pari tempo un anonimo nel senso della generalità assoluta. Il nostro essere al mondo è il portatore concreto di tale duplice anonimato.
Se la storia fosse il frutto di scelte individuali e fondate sul nulla, se «nulla sollecitasse la libertà», essa – la storia – non avrebbe struttura alcuna, dimorando in un caos irrazionale all’interno del quale tutto può risultare da tutto: «la storia non andrebbe mai in nessun luogo e, anche a considerare un breve periodo di tempo, non si potrebbe mai dire che gli eventi cospirano a un risultato». Vi è dunque un senso della storia, che, pur frammentario, è il corrispettivo allargato della struttura dell’esistenza:
noi diamo alla storia il suo senso, ma a condizione che essa ce lo proponga. La Sinn-Gebung non è solamente centrifuga: ecco perché il soggetto della storia non è l’individuo. C’è scambio fra l’esistenza generalizzata e l’esistenza individuale, ciascuna riceve e dà.
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Ecco, dunque, cos’è il senso: Maurice Merleau-Ponty sembra riferirsi, più che a una direzione ultima del divenire storico inscritta nelle cose, ad un momento di verticalità che, per così dire, abbraccia l’intenzionalità totale, che esplode, si sprigiona nel presente, ancorandoci ad esso:
noi non affermiamo che la storia abbia, da cima a fondo, un unico senso […]. Vogliamo dire che in ogni caso la libertà non lo modifica se non riprendendo quello che essa offriva nel momento considerato e grazie a una specie di slittamento. […] anche se non ottiene mai l’oggettività assoluta, la nostra messa in prospettiva del passato non ha mai il diritto di essere arbitraria.
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Ma lo “slittamento” è la Aufhebung hegeliana? Un momento della dialettica?
Gradirei un linguaggio più accessibile e più sintetico come in un dizionario di filosofia.
Non ho grande cultura filosofica, ma ho grande curiosità e passione, se potete accontentatevi. Io credo che si possano esporre i concetti anche più ardui e complessi in maniera semplificata, comunque maggiormente affrontabile. Grazie