«Homo faber est suae unusquisque Fortunae» così sentenzia Sallustio, storico e politico della Roma repubblicana, molto caro al giovane Friedrich Nietzsche. Questa frase divenne la formula con il tono di un motto su cui si fondò l’ideale dell’Homo Faber: concetto cardine dell’Umanesimo quattrocentesco. Divenne così fondamentale in quanto è espressione di una potente ideologia: l’uomo è l’artefice degli eventi che determinano la sua vita quindi ha in mano il suo proprio avvenire.
Immanuel Kant nella sua risposta alla domanda Che cos’è l’illuminismo? nel 1784 ripropone un’altra sentenza latina: «sapere aude!»; l’imperativo che esorta l’uomo ad avere il coraggio di usare la sua propria intelligenza per risolvere (o evitare) i problemi che la vita gli presenta, senza delegare ad altri il compito della loro risoluzione né attendere che essi si risolvano da soli.
Le due sentenze, sono connesse nella prospettiva nietzscheana dell’uomo che deve divenire ciò che è a partire da se stesso, con le sue proprie forze intellettuali e volitive. In questa teoria esistenziale l’arbitrio e il destino si identificano.
Nei primi decenni del 1900 si sviluppò l’idea dell’American Dream: persone indigenti avevano la possibilità di determinare la loro fortuna emigrando in uno Stato ricco di opportunità. Era una circostanza politico-sociale favorevole che, con tutte le varianti storiche, non era dissimile a quella della Roma pre-imperiale nella quale scriveva Sallustio, tanto che il concetto di self-made man è assimilabile a quello romano di Homo Novus. Ciò che caratterizzava questi uomini era l’ambizione e la necessità di uscire da una condizione di vita precaria e grama e di affermarsi come personalità di spicco, diventando benestanti o addirittura ricchi. L’idea era migliorare se stessi rivoluzionando le proprie condizioni di vita, il self-made man è un uomo in fuga.
Così, in una società caratterizzata da una crescente dinamicità, si rese possibile l’ascesa sociale e nacque l’idea, tutta novecentesca, di carriera. Connessa alla dinamicità sociale è l’espressione che definisce questi uomini che, senza ricevere nessun aiuto esterno, creano una propria dimensione di benessere economico e raggiungono una posizione sociale di rilievo, quest’ultima ottenuta con sforzo personale e non per eredità familiare. Si tratta di una formula che definisce l’essenza dei nuovi ricchi, cioè quelle persone che composero la nuova classe emergente: la borghesia americana. L’espressione è appunto self-made man. L’uomo che si è fatto da sé, che ha costruito la sua fortuna a partire da sé stesso.
Questa condizione sociale è descritta e rappresentata in romanzi divenuti molto famosi nel tempo come il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. L’attività dell’uomo che si fa da sé è il fare, ed è un fare peculiare volto a costruire una personalità nel tempo e questo ci riporta all’Homo Faber. Si tratta di uscire da una condizione avversa, che sia l’ignoranza nel caso di Kant, oppure l’indigenza nel caso del self-made man.
Nel film del 2004, The Aviator, Martin Scorsese racconta la vita di un uomo realmente esistito, Howard Huges vissuto nella prima metà del Novecento, pioniere dell’aviazione e abile cineasta. La pellicola si presenta come la biografia di un rampollo americano dal carattere eccentrico, dotato di una disarmante forza centripeta della determinazione: un ragazzo che ha ereditato la propria ricchezza da genitori morti prematuramente che possedevano trivelle per l’estrazione del petrolio. Poiché il petrolio, in quegli anni, era un combustibile fossile appena scoperto, i genitori di Howard erano self-made men in quanto nuovi ricchi. Howard ricorda bene la sua infanzia in povertà, di conseguenza stigmatizza l’avidità degli aristocratici, si contrappone a loro con tutta la potenza del suo acume, come quando pronuncia frasi quali «combatto con aristocratici laureati da tutta la vita» e all’affermazione della madre aristocratica della sua fidanzata «non parliamo mai di denaro» risponde «forse perché lo avete sempre avuto».
È una figura delicata da raccontare sia per il suo rabbrividente talento che per la sua formidabile intraprendenza. Ancora più complicato è rappresentare la malattia mentale di cui era affetto, schizofrenia e bipolarismo nella forma depressiva.
In The Aviator Scorsese rappresenta Howard Huges, interpretato da Leonardo DiCaprio, come il modello e la pietra di paragone dell’uomo geniale: tempestivo, possiede una totale e assoluta fiducia nelle proprie convinzioni, ha intuizioni avanguardistiche nei campi in cui lavora. Howard presenta una rapidità di ragionamento e un’acutezza mentale simile a quella di un intelletto divino. Non si lascia dissuadere da nessuno, né scoraggiare da niente. Quando rischia di perdere tutto, non desiste, fa impegnare l’attività petrolifera di famiglia, piuttosto che ritrattare una sua idea o fare un passo indietro. Viene accusato e convocato a una pubblica udienza, si rimette in sesto e passa dal vivere in una stanza asettica dalla quale non esce neanche per fare i propri bisogni fisici, a difendersi autonomamente controinterrogando il senatore che lo accusa. Howard, a causa della sua malattia mentale, ha frequenti crisi che assumono l’aspetto di scollamento della sua psiche dalla realtà nelle quali ripete con reiterazione senza soluzione di continuità la stessa frase.
A ben vedere, in queste crisi psichiche, il suo vacillare è propedeutico alla autoricostruzione della sua identità, ciò che si presenta come una forma degenerante di psicosi si rivela essere uno status nel quale egli comprende l’origine e la ragione della sua esistenza in momenti in cui l’eccentricità raggiunge l’apice. Frasi quali «fammi vedere i progetti» e «ripetere dal principio» trovano il loro compimento nella crisi finale in cui Howard ripetendo la frase «il mezzo del futuro» riesce a ricordarsi ciò che disse alla madre da bambino quando era in quarantena. Ciò che disse si è rivelato essere il suo futuro.
Analizzando questa frase a partire dall’originale inglese, l’attenzione cade sul termine “way”, della proposizione «the way to the future», che significa la via del futuro, il mezzo per il quale si giunge al futuro. Howard riconosce di avere doti profetiche dal momento che realizza che il mezzo di quello che è stato il suo avvenire è ciò che disse nel suo passato in quanto fin da bambino aveva delle premonizioni veritiere sul proprio futuro.
Finalmente riesce a capire chi è e The Aviator si conclude mostrando la sua consapevolezza nella sua immagine riflessa allo specchio. Il suo acume in realtà lungi dall’essere una capacità da cui trarre autocompiacimento, ricchezze e fama, si rivela essere il dono profetico della premonizione ed è in essa che va rintracciata l’origine del suo estro pionieristico. Ad Howard non interessa divenire famoso o ricco, i suoi successi personali sono solo una conseguenza secondaria del suo agire, il quale è guidato da una consapevolezza di sapere come andranno le cose, dapprima latente e poi manifesta. Il suo fare è rivolto alla realizzazione delle sue premonizioni non principalmente per se stesso, ma per donarle al mondo. L’eccentrica determinazione di Howard Huges germina dai suoi presentimenti su ciò che avverrà e ha lo scopo di restituire al mondo il dono che gli è stato fatto dal destino o, si potrebbe dire, da Dio; tenendo presente che Scorsese è solito ricondurre gli intrecci dei suoi film all’elemento divino.
Lorenzo Pampanini