Dino Buzzati, in principio, era pittore. Ci sono tanti tipi di primi amori, alcuni riguardano la sfera sentimentale, altri quella professionale, altri ancora le proprie attitudini; tutti hanno in comune l’impossibilità di essere rimossi. Rimangono in vita, sotto la pelle, sono ferite aperte destinate a restare tali. Lui stesso ebbe a dire che
il fatto è questo: io mi trovo vittima di un crudele equivoco. Sono un pittore il quale, per hobby, durante un periodo purtroppo alquanto prolungato, ha fatto anche lo scrittore e il giornalista. Ma dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie.
Un amore può infatti affiancarsi a un altro, «il cuore ha più stanze di un bordello» diceva Gabriel García Márquez, ed è così che Buzzati – la penna di via Solferino –, passò con agilità dal pennello alla macchina da scrivere, dalla tela ai fogli bianchi adorando ciascuna di esse con la medesima intensità.
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Snobbato dalla critica “parruccona”, che godeva nel bollarlo come pennivendolo, cantastorie dilettante e pittore di fumetti, Dino pagava il prezzo di essere il giornalista-scrittore passato dalla parte degli artisti, colui che aveva osato superare i confini del nero dell’inchiostro riversato su carta.
Eppure il suo «mondo candidamente stralunato» (come lo definiva l’amico e collega Indro Montanelli), così fiabesco da sembrare irreale, ha in sé qualcosa di nuovo e antico insieme, ispirato come per i più grandi artisti dalla miglior tradizione. E non è un errore riconoscere nelle sue prime fatiche letterarie un gusto quasi naturale per il pittorico, laddove testo e immagine si fondano a guidare il lettore; si pensi a Bàrnabo delle montagne e a Il segreto del Bosco Vecchio, disseminati di schizzi e quadretti al pari della fiaba per bambini La famosa invasione degli orsi in Sicilia.
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Arrivò poi il Poema a fumetti, rilettura in chiave pop del mito immortale di Orfeo ed Euridice, con le sue 208 tavole illustrate in un pioneristico preannuncio della graphic novel, con un pizzico di erotismo pronto a far gridare allo scandalo l’Italia bacchettona. E ancora, gli ex voto di Miracoli di Val Morel, sulle guarigioni attribuite dalle credenze popolari a Santa Rita da Cascia, rilette da Buzzati in chiave fantastica con brevi narrazioni.
Le opere del Buzzati pittore sono apologhi illustrati, dipinti letterari, un mix culturale di correnti e suggestioni. C’è la Metafisica di Giorgio de Chirico, il Surrealismo di Salvador Dalì, la Pop Art di Roy Lichtenstein. La tradizione del fumetto serpeggia poi in tutte le opere – dalla Valentina di Guido Crepax al Diabolik delle Giussani – mischiandosi alla cartellonistica pubblicitaria e ai materiali più disparati.
La prima personale di Dino Buzzati pittore si tenne nel 1958 alla Galleria dei Re Magi di Milano, regalando alle tele del giornalista-pittore il titolo suggestivo di Storie dipinte, poi ripreso e ampliato in quel preziosissimo volume contente cinquantatré dipinti narrativi pronti ad aprire un’ulteriore porta sull’universo dell’artista. I temi affrontati sono quelli del Buzzati scrittore, legati dal sottile filo rosso del fantastico che si snoda tra destino e attesa, mistero e cronaca, crudeltà umana e visione malinconica dell’amore.
Tra questi c’è Le buone amiche (1962), in cui sacro e profano si uniscono in un primo piano impudico e d’impatto. Questa la descrizione:
In primissimo piano notiamo Suor Virgiliana, attonita nella compunzione santa, e la Loredana, cosiddetta donna di piacere. Dietro: la Fausta (quella bionda e intrigante), la signorina Giuseppa Fossombroni, impiegata. Dietro, con la testa esageratamente grande, una che non mi ricordo il nome. Della Britta non si vede che un occhio (mobile). Della Lea, soltanto un occhio e la bocca (immobile). La Giuse ha una faccia da stupida. Leosè dice di venire dalle Antille (sarà?). Notansi, in fondo, una biondina e una moretta, sconosciute. La Franchina è spaventata. La Annette, da quella stupidella che è, si è fatta i capelli bianchi. Che carina, però, sempre, la Loretta, peccato che lavori da un giureconsulto così vegetariano e sensuale.
Un racconto da guardare, scritto col pennello da attingere nel cuore. Perché è vero, sempre, che il primo amore non si scorda mai.
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