Il film di Ridley Scott, Napoleon, è destinato a riportare sotto i riflettori una pagina importante e complessa della storia d’Europa e del mondo. Sarà Joaquin Phoenix a vestire i panni di Napoleone Bonaparte: il condottiero della Corsica che, cresciuto in una famiglia modesta, divenne imperatore. «He came from nothing, he conquered everything» ( È venuto dal nulla, ha conquistato tutto), come la stessa anticipazione del film ha rimarcato.
Tuttavia, mentre il mito di Napoleone Bonaparte (per alcuni affascinante, per altri deprecabile) arriva nelle sale, sarebbe opportuno fare qualche riflessione storica. «Ai posteri l’ardua sentenza», scriveva Manzoni nella celebre poesia Il Cinque Maggio dedicata alla sua morte. Quella sentenza potrebbe rimanere ardua per molto, specie quando una vicenda storica non è tinta solo di bianco o di nero, ma forse un po’ di entrambi. Dopotutto, probabilmente, la fortuna di Bonaparte nell’immaginario collettivo è anche legata alla sua personalità ambigua.
Napoleone, tiranno o progressista? I due volti del generale
Ha scatenato guerre in tutto il Vecchio Continente? Sì. Ha introdotto modernizzazioni scardinando in parte la società del suo tempo? Sì, anche. Per questo risulta complesso tracciare il confine tra gli aspetti oscuri e quelli luminosi dell’esperienza napoleonica che, all’indomani della Rivoluzione francese del 1789, ha svolto un ruolo essenziale nella fondazione di un’Europa svecchiata, moderna, anzi quasi contemporanea.
E se da un lato il generale della Rivoluzione francese, poi dell’Armata d’Italia, poi primo console ed infine imperatore, uccise, attaccò, depredò, minacciò; d’altra parte, rifondò, costruì, scardinò, sdoganò consuetudini feudali. Guardò con curiosità e fascino alla cultura, alle scienze, alle arti, alla giurisprudenza. Se un Medioevo si è davvero concluso nel 1492, forse un altro, più profondo, si chiuse con Napoleone Bonaparte. Gli antichi diritti feudali, le incancrenite aristocrazie d’Europa, l’assenza di una concreta definizione dell’essenza di “cittadino” (scomparsa probabilmente dall’età degli antichi), terminarono con lui.
Senza dubbio, la presa della Bastiglia, la rivoluzione dell’anticlericalismo settecentesco, di Robespierre, della ghigliottina (a più riprese cruenta e sanguinaria), smosse la ristagnante situazione degli Stati, ma in un clima spesso a cavallo tra la visione anarchica e quella del paranoico sospetto. La Rivoluzione non riuscì a superare sé stessa. E fu proprio l’epoca di Napoleone Bonaparte ad abbracciare le istanze di cambiamento dell’Illuminismo e al contempo ad ordinarle in una visione d’insieme, propositiva, funzionale a superare il clima della semplice sommossa, del semplice tumulto di popolo senza visioni precise.
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A Waterloo ha vinto la reazione?
Questo nostro scritto potrebbe sembrare, a tratti, un’apologia napoleonica, ma non lo è. Vuole proporsi come un’analisi più profonda dei fatti che non può tirarsi indietro dalla presa in considerazione di dati oggettivi. E se a Waterloo, nella celebre disfatta di Napoleone Bonaparte contro gli inglesi di Wellington, a vincere fosse stata la reazione? Quella reazione dei vecchi nobili ancora legati a contesti feudali, alle linee di sangue, al potere come diritto innato, al solo valore legato alla nobiltà della famiglia d’origine? Waterloo fu il colpo di grazia ad un pericoloso tiranno o il trionfo del passato?
L’imperatore Bonaparte viene spesso, specialmente oggi, dipinto come uno spietato conquistatore, detentore di un potere assoluto, accecato dalla gloria e dalle imprese, dalla sua stessa persona. Può essere in parte vero. Ma è senz’altro vero che a Waterloo fu proprio la reazione, l’Ancien Régime, a trionfare. Trionfò la bandiera di quegli inglesi che confidavano nella nobiltà aristocratica, frustando i loro stessi soldati che (a differenza di Napoleone) non erano poi così avvezzi al rinnovamento e al riconoscimento del merito, del valore dei singoli, al di là delle linee di sangue, al di là dei “pennacchi”. Diceva invece Napoleone «Ogni soldato porta nella sacca il bastone di Maresciallo di Francia».
Il generale francese puntò certamente tutto sulla guerra, come strumento di conquista e di realizzazione, non solo personale, ma dell’intera compagine che gli ruotava attorno. Ma l’esercito di Napoleone Bonaparte, a differenza di quello britannico, dava ai soldati ampi margini di crescita, indipendentemente dal rango, dalle famiglie, dall’aristocrazia. Napoleone Bonaparte cercava ed esaltava i migliori tra gli uomini, non i più nobili.
Così com’egli stesso era partito da un contesto familiare modesto, così innalzò persino al rango di ufficiali modestissimi soldati, tanto che, per la maggior parte, la sua armata fu composta da ufficiali e sottufficiali che si guadagnarono i gradi sul campo. Nell’armata inglese il potere era dei figli cadetti delle famiglie nobili, al di là del fatto che sapessero o meno reggere in mano anche un semplice fucile. Napoleone adattò lo stesso criterio di selezione per gran parte dei suoi ranghi, anche di governo.
Napoleone: innovazioni, riforme, repubbliche
La mentalità di Napoleone Bonaparte era sostanzialmente in gran parte rivoluzionaria rispetto alla consuetudine. Sebbene abbia, più volte, rinnegato l’idea di rivoluzione (altre volte l’aveva elogiata) il generale non digeriva le vecchie monarchie, le usanze feudali, il dominio incontrastato dalla Chiesa, a discapito delle riforme civili. Forse anche per questo si prodigò, un po’ sulla scia dei tumulti rivoluzionari, nel perpetrare ancora i sequestri di beni ecclesiastici e nell’affermare la determinazione del potere statale e civile: atto palese fu l’incoronazione di sé stesso, rifiutando il pubblico avallo papale.
Si prodigò anche a risistemare il Codice Civile, a ricostruire l’Europa dalle fondamenta, guardando (da buon illuminista) anche ai modelli antichi, ma in un’ottica di modernizzazione della classicità. Appoggiò i musei, la stessa educazione civica, il proliferare di enti culturali, di organizzazioni artistiche e scientifiche. Sarebbe infelice non riconoscergli un ruolo cardine nella decostruzione dell’Europa medievale (nel senso più feudale del termine) e nella realizzazione di una società della modernità, oltre le superstizioni, oltre le paure dei secoli precedenti, oltre le catene della ragione. Depredò le opere italiane? Sì, senza dubbio. Una doppia faccia della medaglia che torna e ritorna ancora. E con lui sempre.
Indubbio però anche il suo ruolo nel sostegno alle neonate repubbliche. Evidenti i tentativi italiani di allestire la realtà sul modello della Francia post-rivoluzionaria. Napoli nel 1799 (effimero respiro di modernità sulla realtà partenopea )e la Repubblica Cisalpina rappresentano il sogno di un’Italia repubblicana, gemella della Francia e ad essa legata (seppur in maniera subalterna nella sua ottica). Inoltre, le battaglie di Murat nel Mezzogiorno, le accademie e le biblioteche, i dibattiti giuridici, le riforme sociali, l’igiene pubblica, la ricostruzione delle città (strette, arroccate, schiacciate su se stesse) che venivano trasformate in ampie e luminose gallerie d’architetture lineari, radiose e ordinate.
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Quel sogno di unità dell’Europa
Al di là di tutti gli aspetti in ombra della figura di Napoleone Bonaparte, vi furono anche aspetti di luce, non facilmente replicabili nei secoli a lui successivi. Certe istanze sociali, certe esigenze sociali, non troveranno nuove realizzazioni se non addirittura a Novecento inoltrato, con rari bagliori negli anni della Primavera dei popoli e poi dei moti risorgimentali. Ma il progetto napoleonico dell’Europa unita non sarebbe dovuto passare solo attraverso le armi, l’esercito, gli insanguinati campi di battaglia. L’Europa unita (Bonaparte ne parlò più volte) avrebbe dovuto guardare a leggi uniche, a un governo unico, a progetti condivisi.
Napoleone Bonaparte fu precursore (e forse unico sognatore) di un’Europa realmente unita, con ideali e obiettivi condivisi (che non si vedono all’orizzonte neppure oggi), per far del Vecchio Continente un Nuovo Continente, forte ed indipendente. Fu proprio Napoleone a parlare di leggi unitarie, di codici unici per le nazioni d’Europa. Certo, nel suo caso, il tutto ammantato dall’aura imperiale che gli faceva sognare l’antico mito di Carlo Magno che riusciva ad adattare alla modernità. E chissà che sotto quell’ultimo (e per certi versi “scimmiottato”) impero non covassero in fondo le basi per costruire gli Stati Uniti d’Europa. Non quelli (fantomatici) di oggi, delle banche, dello spread. Quelli veri, dell’appartenenza collettiva, delle radici comuni. Solo lui avrebbe potuto risponderci.
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