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Possiamo studiare la storia attraverso le lingue?

La lingua può dirci molto più di quanto crediamo. Ogni parola può avere una storia divertente, leggendaria e in qualche modo legata a fatti storici o epoche remote. Vediamo qualche esempio

15 minuti di lettura

In questo breve articolo ci si prefigge l’intento di incuriosire il lettore su un soggetto di capitale importanza nella storia umana, poiché mezzo di espressione del reale più immediato: la lingua. Si pone quindi fin da subito un’avvertenza utile ai fini della comprensione della complessità del soggetto preso in analisi: qui si fa pura divulgazione senza pretese scientifiche, ma si lascia comunque al lettore più appassionato e suggestionabile una brevissima, autorevole e facilmente reperibile bibliografia di approfondimento a conclusione di questo breve articolo. Ma partiamo nel nostro excursus: le lingue e i loro cambiamenti nella storia.

Le lingue e i loro mutamenti nella storia

Come già si diceva in appendice la lingua è quel mezzo di codifica fono-testuale che l’uomo utilizza per descrivere il reale e per esprimersi. Pertanto tale mezzo in diacronia ha un valore di per sé storico perché può darci la prova dei mutamenti di espressione che in qualche modo sono sempre ricollegabili ad un ambiente esterno che le influenza. Insomma l’epoca storica cambia le parole, le espressioni, le lingue. Si pensi ad esempio al passaggio che vi è dal latino alle lingue romanze. Si tratta qui di un lunghissimo iter fatto di progressioni verso le nuove forme e regressioni continue che gli storici della lingua datano già in seno all’epoca imperiale, anche prima della caduta dell’Impero. Il processo dunque è di carattere metamorfico e talora obbedisce a delle norme che possono essere normalizzate a posteriori, come i mutamenti fonologici, vocalici, consonantici, morfologici e morfosintattici, che spesso seguono un trend generalizzato, influenzato forse dal carattere analogico del pensiero umano. Si pensi ad esempio al fatto che tantissimi verbi hanno delle desinenze comuni e reiterate, in molti casi adottati proprio per analogia. Il verbo scribo latino aveva il perfetto di 1a pers. sing. scripsi che diventa in italiano il passato remoto indicativo scrissi, per una legge fonetica consonantica per cui la ”p” viene assimilata alla ”s” e raddoppia. Un verbo come moveo che alla 1a pers. sing. del perfetto vedeva movi in italiano si trasforma in mossi, soltanto per analogia con i verbi come scribo. Insomma, per il parlante è più facile ricordare i verbi quando questi hanno dei morfemi analoghi per determinate funzioni.

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Tuttavia non tutto può essere ricollegabile a delle leggi evoluzionistiche ineccepibili, come una certa corrente, i neogrammatici, ha voluto fare credere per lungo tempo, spesso certi esiti linguistici sono del tutto a discrezione di una determinata comunità di parlanti che in un determinato tempo, a causa di determinati avvenimenti storici, culturali, intellettuali, decide di operare quella innovazione.

Il gallo francese

Il primo esempio che faremo è il lemma “coq“, che in francese significa gallo. Ora, in italiano diciamo gallo per una ragione molto semplice: deriva dal latino gallum, lemma che in questo senso non ha subito particolari innovazioni se non la normale caduta della ”m” che già in «epoca repubblicana poteva essere cancellata da una regola allofonica» (Barbato, 2017) e la “u” breve che diventa “o” nel sistema vocalico italoromanzo: abbiamo così “gallo”. Ma in francese i fenomeni sono altri: la doppia LL diventa TT, e l’occlusiva “g” davanti a vocale si palatalizza in “sc”. Insomma, si arriva ad avere soprattutto nel sud della Francia gallum > *chatt. Chi ha un minimo di competenza del francese moderno oppure si ricorda l’iconica insegna dell’omonimo bar parigino, sa che “chat” in francese significa gatto. Cosa possono fare dunque i parlanti di fronte a un significante che presenta due significati troppo in contrasto tra loro perché descriventi due elementi di uno stesso genere, gatto e gallo?

La soluzione può essere inventarsi un nuovo etimo. Così nel sud della Francia durante il medioevo, in certe parlate locali, il gallo incomincia ad essere chiamato “vicaire. Per una ragione molto divertente, se ci si pensa: il vicaire era essenzialmente il vicario di campagna, ossia quel personaggio che andava a riscuotere le tasse per conto di un padrone (chiesa, signore o stato). Dal momento che di solito costoro portavano grandi foulards bianchi e per via della loro ricchezza potevano permettersi di essere in carne, insomma di avere una certa pinguedine, agli occhi dei contadini assomigliavano a dei galli. E poi il gallo si sa, non può essere mangiato, così era anche impossibile la frase “le vicaire mange le vicaire.

Ma purtroppo o per fortuna l’esito finale nel francese moderno è un altro. Perché infatti, in altre zone della Francia si è scelto un etimo che andava a riprodurre in modo onomatopeico il verso dell’animale. Difatti, mentre il gallo italiano ha il verso “chicchirichì”, quello francese fa “coccoricò“. Da qui l’etimo coq.

E la storia di questa parola non si ferma qui. Perché se ci spostiamo oltremanica possiamo notare che in inglese gallo si dice “cock, ed è un prestito medievale del francese, come tantissime altre parole inglesi. Pochi sanno però che verso il 1400 nelle campagne inglesi i contadini bevevano una bevanda variopinta e alcolica, in qualche modo ispirata alla coda di gallo. Ora, come si dicono coda e gallo in inglese? “tail” e “cock“, giriamolo: cocktail.

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Italia

Torniamo molto indietro nel tempo e analizziamo il nome “Italia”. In epoca romana repubblicana il termine voleva essenzialmente descrivere geograficamente tutta la penisola tranne le isole, dunque Sicilia e Sardegna, poiché verranno conquistate in seguito alle guerre puniche. In epoca monarchica il termine indicava invece un territorio molto più ridotto che si estende tra la bassa Campania e la Calabria. Ma perché Italia?

Uno storico greco del V sec. a.C., Antioco di Siracusa, lo fa derivare da un grande condottiero di nome Italo che avrebbe conquistato quella zona meridionale dell’odierna Italia in tempi immemori, ma pare essere una spiegazione tanto affascinante quanto leggendaria e legata a racconti popolari di dubbia veridicità.

Persuade piuttosto una sua derivazione dall’osco “viteliu“, nel senso che il territorio doveva essere ricco di bovini o che il vitello vi rappresentasse un animale sacro. La forma Italia si spiegherebbe quindi anzitutto con la caduta della <V> iniziale, conseguente alla pronuncia delle genti della Magna Grecia, attraverso la quale essa passò ai Romani.

Geraci, Marcone, 2017

Glans – glandis

Se prendiamo un qualsiasi dizionario di latino il sostantivo di 3a declinazione glansglandis ci viene giustamente tradotto ghianda. Infatti, per i mutamenti fonetici che interessano in particolare l’occlusiva più liquida che danno dittongazione (g + l + a = gh + ia). Ecco che però a qualche lettore quell’etimo latino può aver fin dal titolo suggerito una derivazione diversa: il glande maschile, ossia la parte superiore del pene. La ragione è semplice e deriva in realtà dal funzionamento dell’etimo greco, lingua con cui effettivamente si diede la prima definizione della suddetta parte anatomica con l’etimo bàlanos che significa o ghianda o, come nel nostro caso, a forma di ghianda. Infatti, ad una osservazione più minuziosa, si può ben comprendere i motivi della riconosciuta analogia di forma tra la ghianda e il glande. Di conseguenza, nel sottocodice medico-scientifico, che per molti secoli rimane soltanto in latino, prima dell’atteggiamento linguistico rivoluzionario di Galileo Galilei, che sarà il primo ad usare l’italiano in campo scientifico, l’etimo rimane latino e poi viene italianizzato più tardi. Invece, la ghianda diventa tale subendo le metamorfosi linguistiche.

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Ecco che però, mentre in italiano ci sono due significanti diversi per i due oggetti differenti, in francese no. Infatti, dal momento che in francese il nesso consonantico “gl” non muta e non dittonga come in italiano, quella che per noi è divenuta “ghianda”, in francese è rimasta gland, lo stesso significante di glande (gland). Ci si potrebbe chiedere il perché, insomma, perché non si vogliono distinguere i due significati attraverso due lessemi diversi. La risposta è che il parlante non ne sentiva bisogno. Mentre infatti nell’esempio sopra di gallum l’esito uguale con cattumpoteva creare un problema linguistico non indifferente per un contadino francese: la difficoltà di farsi comprendere quando intendeva gatto o gallo. E immaginatevi se il contadino dicendo al figlioletto “porta il *chatt nel pollaio” quest’ultimo avesse portato il gatto anziché il gallo, insomma il problema non sarebbe stato indifferente. Ma la differenza di utilizzo, proprio a livello diastratico del sottocodice medico e della lingua quotidiana, fa sì che gland possa significare sia glande che ghianda senza troppe conseguenze sulla vita del parlante.

Lapalissiano

Lapalissiano è una parola poco usata nell’italiano corrente, è un sinonimo di “ovvio”, eppure esiste e ha una derivazione molto divertente.

Nel 1525 ci fu la battaglia di Pavia, una delle guerre d’Italia del 1521-1526, che vede contrapporsi i francesi al Sacro Romano Impero, Ducato di Milano, Marchesato di Mantova e la Spagna. Lo scontro venne perduto dai francesi e soprattutto morì Jacques de La Palice, italianizzato Lapalisse, maresciallo che si dice venisse ricordato dai suoi soldati con il seguente epitaffio: ci-git Monsieur de la Palice. S’il n’était pas mort, il ferait encore envie (Qui giace il signore de La Palice. Se non fosse morto, farebbe ancora invidia.) Di questa frase, nel tempo, la “f” del condizionale “ferait” viene letta come “s” e dunque diventò il condizionale del verbo essere, “serait” (sarebbe), e il lessema “envie” che vuol dire “invidia” venne inteso come “en vie“, “in vita”. Dunque la frase si trasforma in: “se non fosse morto, sarebbe ancora in vita”. La frase può dunque essere definita come tautologia, ossia ovvietà.

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Tale frase verrà ripresa da La Monnoye il secolo successivo, un poeta e letterato dell’accademia di Francia, che ne scriverà una canzone irrisoria del personaggio, dileggiandolo come campione per antonomasia della banalità e ovvietà.

Nel XIX secolo, dopo che la canzone di La Monnoye era caduta per certi secoli nell’oblio, Edmond de Goncourt (famoso anche per il premio letterario Goncourt, equivalente del premio Strega in Italia) la recuperò e coniò il termine francese “lapalissade”, con significato: ovvietà, tautologia. In italiano sarebbe poi entrato come prestito lessicale dal francese.

Conclusione

Quelli fatti qui sono solo alcuni esempi, ma ogni parola può avere una storia divertente, leggendaria e in qualche modo legata a fatti storici o epoche remote. Insomma, la lingua forse può dirci molto più di quanto di crediamo e pertanto dovrebbe essere interesse di tutti preservarla.

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Bibliografia

Marcello Barbato, Le lingue romanze, Laterza, Roma, 2017
Paolo D’Achille, Breve grammatica storica dell’italiano, Carrocci, Roma, 2001
Marcello Aprile, Dalle parole ai dizionari, il Mulino, Bologna, 2005
Alberto Varvaro, Il latino e la formazione delle lingue romanze, il Mulino, Bologna, 2013
Pietro Beltrami, La filologia romanza, il Mulino, Bologna, 2017
Giovanni Geraci, Arnaldo Marcone, Storia Romana, Le Monnier, Milano, 2017

Vladislav Karaneuski

Classe 1999. Studente di Lettere all'Università degli studi di Milano. Amo la letteratura, il cinema e la scrittura, che mi dà la possibilità di esprimere i silenzi, i sentimenti. Insomma, quel profondo a cui la parola orale non può arrivare.

1 Comment

  1. Esposizione cristallina ed esempi interessantissimi. Bravo

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