Naturalezza, armonia e proporzione: così nel V secolo a.C. Policleto, all’interno del suo perduto Canone, aveva teorizzato i principi della bellezza, le cui radici stanno nell’anima e si riflettono nella purezza del corpo. All’interno del mondo greco, da Saffo passando per Platone e andando oltre, il tema della bellezza ritorna spesso, e raggiunge le sue massime vette nella produzione artistica: una bellezza fatta di proporzione delle forme e profili austeri, in cui l’integrità e l’omogeneità della pelle riflettevano la libertà del corpo e dello spirito. Non vi era spazio per cicatrici e, ancor meno, per “deturpazioni” del corpo: percepiti come un intaccamento nell’anima, i tatuaggi erano un’arte “barbara”, sintomo di disordine e sottomissione. Nell’ottica greca questo pensiero è comprensibile, in quanto i campioni della libertà e della “cultura” (per come veniva intesa all’epoca) non potevano che inorridire di fronte a un qualcosa che per loro era simbolo stesso del contrario. Da cosa nasceva questo pensiero? Forse dal fatto che le uniche persone tatuate nell’antichità classica erano proprio schiavi o stranieri, provenienti da altri contesti culturali nei quali, come vedremo, il tatuaggio possedeva ben altro valore. Da qui il collegamento della pratica con la non-libertà, con qualcosa “d’altro” estremamente distante dalla grecità e, per questo, non portatore di valori. Un’arte, quella del tatuaggio, associata quindi agli emarginati, che li rendeva allo stesso tempo riconoscibili come tali: in un papiro ritrovato a Menfi, si denuncia la scomparsa di uno schiavo fuggitivo diciottenne, il cui tratto distintivo, insieme a una cicatrice e un neo sul viso, era quello di avere sul polso destro “due lettere barbariche”. Una stigmatizzazione vera e propria, come dimostra la derivazione della parola stessa dal greco antico stigma: un marchio visibile, indice della diversità e utilizzato per segnare chi aveva perso la libertà o aveva provato a fuggire da questa condizione.
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Ma cosa succede quando si cambia prospettiva? Erodoto (Storie, IV) parla degli Sciti, un nome che definisce tutta una serie di popolazioni nomadi e semi-nomadi provenienti dalle steppe eurasiatiche, conosciute in antichità per l’abilità a cavallo. In una zona che può essere compresa all’interno di questi territori, nell’altopiano di Ukok (regione dell’Altaj, tra Kazakistan e Mongolia) nel 1993 sono stati rinvenuti i resti di una donna e di due uomini appartenenti alla cultura Pazyryk, vissuti all’incirca 2.500 anni fa (nel V secolo a.C., periodo in cui Erodoto vive e scrive la sua opera) e inumati all’interno di kurgan, sepolture tipicamente scite. Ricollegabili all’ambiente scita sono anche certe caratteristiche del corredo funebre, che indica l’appartenenza dei defunti a un ambiente nomade e guerriero; ma l’aspetto decisamente più interessante di questi corpi mummificati sono, senza ombra di dubbio, i tatuaggi finemente realizzati che percorrono la loro pelle. Nella fattispecie, colpiscono quelli della donna: una chimera dal corpo di cervo (animale psicopompo nella visione scita), con becco di grifone e corna di capricorno ne ricopre totalmente la spalla sinistra, mentre altri disegni di animali sono presenti in sezioni diverse del corpo (come le dita), indicando chiaramente il suo status altolocato. Una “principessa” conservata nel ghiaccio, che presenta delle fratture compatibili con una caduta da cavallo e con il corpo cosparso di tatuaggi di animali che, secondo le fonti e gli studiosi, costituiscono il fulcro dell’arte degli Sciti e ne «definivano la posizione nel mondo, lo status, la famiglia e le esperienze» (Natalia Polosmak, archeologa che ha effettuato la scoperta). Niente di più lontano da quel che per i Greci era idealmente un simbolo di nobiltà.
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«Avere dei tatuaggi/l’essere tatuati (τὸ ἐστίχθαι: infinito perfetto sostantivato di στίζω/stizo, “marchiare, tatuare”) è considerato segno di nobiltà, l’esserne privi è ignobile». Così si esprimeva Erodoto parlando di alcune popolazioni della Tracia (Storie, V, 6), all’interno delle quali uomini e donne facevano mostra con orgoglio dei loro marchi di vita, ritenendo vergognoso quel che nell’Atene del V secolo era considerato indice di libertà e motivo di vanto, ovvero il non averne. Un ribaltamento curioso, dimostrazione di quanto un cambiamento di focus possa stravolgere totalmente la visione d’insieme di un determinato fenomeno. Ancora più curioso è il motivo per cui, secondo alcuni autori antichi, si sarebbe generato quest’uso: Clearco di Soli (IV-III sec. a.C.), nelle sue Vite, passa in rassegna i costumi di diverse popolazioni straniere e non si trattiene dal riportare che soprattutto le donne tracie presentavano dei disegni tatuati in varie zone del corpo, usanza appresa e tramandata in seguito a un periodo di prigionia presso delle popolazioni scite; mentre per Plutarco quei segni ottenuti con tanto dolore erano inflitti alle donne di queste zone per ricordare la sofferenza che esse avevano in passato causato a Orfeo, sventrato dalle Menadi (legate al culto di Dioniso e alla Tracia). Al confine tra mito e storia, tatuaggi, donne e Tracia creano tra loro un legame molto forte, che si concretizza/risulta anche nella raffigurazione di una divinità tipicamente tracia come Bendis: collegata al culto di Artemide (talvolta di Ecate) e con essa identificata dai Greci, nelle testimonianze iconografiche viene spesso raffigurata di fronte ad Apollo, stante e ricoperta di disegni (interpretabili come tatuaggi) su braccia e gambe.
Facendo un salto spaziale e spostando l’attenzione su Roma, fin dalla prima età imperiale si riscontrano dei riferimenti a questo uso da parte di abitanti della Britannia settentrionale, un uso che allo stesso tempo straniva e incuriosiva i cittadini dell’Urbe: secondo Properzio (Elegie, II, 18) in alcuni casi si cercava addirittura di imitare quest’atto di tingersi la pelle, tipicamente associato ai Britanni e percepito quasi come affascinante. Espressione del valore, il dipingersi il corpo in maniera semi-permanente diviene dunque il carattere distintivo delle popolazioni circostanti il Vallo di Adriano, tanto da valere loro il nome di Pitti o Picti (letteralmente “dipinti”) dal III sec. d.C. in poi. Che fossero dipinte o tatuate, a seconda delle fonti che si prendono in considerazione (le più antiche propendono per la prima, mentre quelle più tarde per la seconda), figure blu di animali solcavano la loro pelle e generavano lo stupore di chi li incontrava.
E nemmeno i Cristiani sembrano essere stati immuni al fascino del tatuaggio e alla sua implicazione sacrale, tanto che, a detta di Procopio di Gaza, (V-VI sec d.C.) non era insolito trovare dei fedeli disposti a segnarsi con il nome o i simboli di Cristo. Estrema dimostrazione di fede (nonostante la condanna ufficiale da parte della Chiesa), il marchiarsi la pelle diveniva anche una testimonianza dell’avvenuto pellegrinaggio in Terrasanta e non solo: una famiglia di Gerusalemme si tramanda il mestiere di tatuare i pellegrini da più di 700 anni e, parallelamente, nel Santuario della Santa Casa di Loreto è stato attivo per secoli un frate tatuatore.
Magia, natura, status sociale, religione… segno di schiavitù o marca di valore, numerosi sono stati gli impieghi dei tatuaggi attraverso i secoli e i millenni, per arrivare alla quotidianità odierna: per qualsiasi motivo vi si faccia ricorso, si tratta innegabilmente di un’eredità antica e multiforme.
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Bibliografia
- Erodoto, Storie;
- Clearco di Soli, Vite;
- Plutarco, Sulle virtù delle donne;
- papiro di Menfi (P. Par. 10 = U. WILCKEN, «UPZ.», I, 121);
- Dizionario delle religioni mediterranee, Mircea Eliade, 1907 (edizione del 2020 ad opera di Jaka Book);
- sull’arte degli Sciti: Gli Sciti, Tamara Talbot Rice, Il Saggiatore, 1958;
- per approfondire sugli schiavi, schiavi fuggitivi e tatuaggi nel mondo greco-romano: Rivista di diritto ellenico, Cobetto Ghiggia Pietro, vol. 2 (2012), pp. 27 – 44;
- Properzio, Elegie;
- per approfondire sulle popolazioni della Britannia, ma anche sul tatuaggio cristiano: I Pitti (“Dipinti” o “tatuati”), Patrizia Lendinara,in Nuovi quaderni del circolo semiologico siciliano, 4 (2018), pp. 79-100.