Il 17 e il 24 novembre del 1980, Michel Foucault tenne due conferenze dal titolo Subjectivity and Truth e Christianity and Confession, al Dartmouth College, nel New Hampshire. Nel 2012, quattro studiosi – Laura Cremonesi, Orazio Irrera, Daniele Lorenzini e Martina Tazzioli – hanno tradotto i testi delle due conferenze del filosofo francese in italiano, che erano stati pubblicati per la prima volta nel 1993 nel vol. 12 della rivista Political Theory e curati da Thomas Keenan e Mark Blasius. Grazie al lavoro di questi studiosi, dal 2012 esiste un libro delle due conferenze di Foucault, dal titolo Sull’origine dell’ermeneutica del sé.
Il nome Michel Foucault è tra i più presenti nel dibattito pubblico e scientifico odierno, e ciò anche in virtù del concetto da lui elaborato di “biopolitica”, un concetto che le note difficoltà delle società democratiche contemporanee hanno consentito ad alcuni filosofi e intellettuali contemporanei di impiegare per tentare di prevenire e chiarire la situazione socio-politica attuale. Il lavoro svolto da Foucault tocca, in effetti, dei problemi salienti del nostro tempo.
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Michel Foucault è, certamente, una fonte cui certa filosofia contemporanea (e non solo) attinge, non semplicemente perché le tematiche di cui si è occupato ci riguardano tutti, ma anche perché ad essere decisivi sono lo scopo, il metodo, lo stile, e l’eredità del suo lavoro.
Foucault ha pensato in modo innovativo la soggettività moderna nel suo sviluppo storico. L’archeologia del pensiero per ricostruire la genealogia del sé moderno è stato un compito che, come riferisce egli stesso, lo ha «ossessionato per anni. La genealogia ha un nesso inscindibile con la casualità e, pertanto, con l’evento. Di questo nesso Foucault era consapevole al punto tale da applicare il proprio metodo da principio alle situazioni e agli avvenimenti accaduti negli istituti psichiatrici, nelle cliniche, negli asili, e nelle prigioni; per poi passare ad impiegarlo nel contesto dell’analisi delle fonti storico-filosofiche, con lo scopo ultimo non di riattivare antiche pratiche, né solo di comprendere la storia della soggettività nel suo sviluppo culturale, ma di attivare una mobilitazione per modificare la soggettività, vivere altrimenti.
L’importanza dell’ultimo Foucault
Capire questo, ci conduce subito a schematizzare il senso del lavoro di Foucault, e al contempo a capire perché sia stato proprio lui a scoprire la capacità del sé di intervenire su sé stesso per migliorarsi, propria di ciascun essere umano, in quanto potenzialmente in grado di superare i vincoli dell’ordine simbolico vigente. Ogni individuo è dotato della capacità di esercitarsi, allenarsi, per avere un equipaggiamento funzionale a vivere al meglio, ed essere ciò che vuole e deve essere, in quanto capace di costruire la propria soggettività in modo tale da rendersi più forte degli eventi che gli capiteranno nel corso della propria vita. Capace di diventare padrone di sé, libero, perché in grado di esercitare la governabilità della propria sorte.
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A questo proposito si veda la lezione del 6 gennaio 1982 tenuta da Foucault al Collège de France, nella quale il filosofo, inaugurando il corso, inizia ad esporre il suo studio sulla rilevanza della cura di sé nel mondo antico, segnalando quello che identifica come l’avvio del processo psico-storico di soggettivazione, rinvenendone «la prima formulazione teorica» nell’Alcibiade di Platone. In quel dialogo viene detto che la cura di sé diventa necessaria come precetto di crescita del giovane, proprio in ragione del deficit pedagogico di cui Alcibiade è stato vittima, e per estensione, la cura di sé deve essere esercitata dal giovane che entra nella vita pubblica, a causa dell’insufficienza e dell’inadeguatezza dell’educazione tradizionale ateniese. Questo punto è fondamentale per Foucault, perché in ciò ravvisa il carattere squisitamente post-strutturalista della cura di sé, in quanto essa fa sì che l’individuo possa sganciarsi dalla pedagogia, cioè dal contesto dei costumi sociali, dell’ambiente materiale, e dell’uso linguistico in cui si trova immerso, per formarsi da sé.
La cura di sé è, perciò, la capacità personale che rende possibile il cambiamento autoindotto del soggetto, che attiva una autonoma cibernetica di sé, mediante la rottura con il suo habitat culturale. Vale a dire che la cura di sé è la più importante delle tecnologie del sé escogitate sin ora, in quanto è il principio di un’altra fondamentale pratica di sé: la conversione del soggetto su di sé. Questa conversione mette in atto un mutamento che – al netto delle numerose differenze che Foucault ha portato alla luce tra la filosofia antica e il cristianesimo – è prodotto da esercizi di sé su di sé volti a creare uno stile di vita.
La semantica della cura di sé Foucault la descrive nel terzo volume della Storia della sessualità. Occuparsi di sé è «un imperativo antichissimo» che non indica una generica preoccupazione astratta, ma una serie di occupazioni. Epimeleia è parola impiegata per indicare le mansioni del padrone di casa e del contadino, il ministero del principe verso i sudditi, le cure da prestare a un malato, e le onoranze funebri (M. Foucault, La cura di sé. Storia della sessualità 3, Feltrinelli, 2019, pp. 47-54). Si tratta di attività precise che richiedono tempo, fatica, impegno. La necessità di occuparsi di sé è attestata in pratiche, modi di vivere delle civiltà arcaiche, precedenti a Socrate e a Platone (M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, Feltrinelli, 2021, pp. 40-41), cioè prima della comparsa della filosofia. L’occuparsi di sé è una attività che l’essere umano è naturalmente in grado di fare, l’uomo è, anzi, in natura, l’essere preposto a farlo, in quanto è libero e razionale (La cura di sé, p. 51)
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È evidente che questo tipo di individualità pratica, che concerne l’organizzazione razionale che produce una forma di vita mediante attività concrete di trasformazione del sé, è seriamente minacciata dal post-individualismo delle ideologie comunitarie contemporanee. Infatti, cercando di ridurre il sé ad inesistente finzione psicosociale, si attira il rischio di dissolvere le possibili pratiche comunitarie di soggettivazione, attraverso le quali sarebbe possibile risolvere i numerosi problemi della vita e del mondo contemporanei. Sull’altro fronte, la minaccia arriva dai problemi speculari dell’inoculante tecno-potenziamento delle competenze, e della pigrizia indolente e della riluttanza verso il voler riflettere su certi temi, e prendere sul serio certe circostanze, come quelle su cui Foucault ha attirato l’attenzione.
Analizzare l’ultima fase dell’attività filosofica di Foucault è, perciò, fondamentale per le soggettività contemporanee. Essa è segnata dall’interesse di due grandi questioni. La prima e più nota è la storia della costituzione della soggettività moderna, come concretamente è stata costruita l’identità del Sé, a cui Foucault si dedica attraverso una analisi storico-concettuale delle pratiche e degli esercizi che hanno condotto all’invenzione di precetti fondamentali della condotta della soggettività, che hanno avuto una genealogia sino a incapsularsi in ciò che oggi siamo. L’altra questione, connessa alla prima, in cui è impegnato l’ultimo Foucault, concerne il modo in cui ciascuno è venuto a considerarsi parte di una comunità, di una Nazione, di uno Stato, ciò che il filosofo ha chiamato tecnologia politica degli individui.
Qui ci concentreremo sulla prima questione.
Lo spostamento teorico sul Sé
La domanda a cui il lavoro di Foucault sulle tecnologie del sé tenta di trovare risposta è: come e perché siamo diventati gli individui che tutti noi, nonostante le nostre differenze particolari, siamo? I risultati del suo lavoro, invece, dischiudono l’orizzonte oggi fondamentale delle pratiche di trasformazione della soggettività. Quel prontuario di pratiche attraverso cui, ponendo sé stesso come proprio oggetto di intervento tecnico, ciascun individuo può raggiungere due risultati concomitanti: intervenire in modo trasformativo sul proprio sé, e produrre su di sé un auto-miglioramento etico e cognitivo.
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In altre parole, sono presenti in Foucault sia un lavoro sul tema della esperienza della liberazione mediante autoproduzione (educativa e cognitiva) di sé, sia il tema del miglioramento delle condizioni di vita (etiche e sociali). Infine, lo scopo del suo lavoro è operare un radicale cambiamento nel modo di vivere, in maniera tale da non poter più tornare indietro: un turning point cognitivo, etico, e, perciò, esistenziale. Far capire, cioè, che ciò che crediamo sia normale, stabilito per sempre, naturale, in realtà, è frutto di una costruzione millenaria, e se il nostro sé – e dunque la nostra condotta – è stata plasmata da noi, vuol dire che non è qualcosa di definitivo, fisso, e immutabile, ma sempre soggetta a nuovi interventi, a nuove pratiche, in grado di trasformarci (sia individualmente che collettivamente).
Problema e ruolo dell’ultimo Foucault
È Foucault stesso a chiarire il proprio scopo, in una intervista del 25 ottobre 1982:
Il mio ruolo è quello di far vedere alle persone come esse siano più libere di quello che pensano, e di mostrare loro come esse considerino vero ed evidente ciò che in realtà è stato costruito in un determinato momento della storia, sicché quella presunta evidenza può essere sottoposta a critica e distrutta
Cinque anni prima, nel luglio del 1977, in una intervista per il giornale Rouge, Foucault aveva già detto che «mon problème c’est: notre actualité étant donnée, comment est-ce que l’on peut, à travers une analyse généalogique, repérer les points stratégiquement significatifs, tactiquement utilises à l’heure qu’il est. Voilà.»
Peter Sloterdijk, volendo riferire il valore del terzo “spostamento teorico” del filosofo di Poitiers, ha appuntato questo commento:
Foucault […] si è confrontato con la sfida di pensare in modo inedito il nucleo di tutte le filosofie, la teoria della libertà: non più nello stile di una teologia filosofica della liberazione, bensì come dottrina dell’evento che emancipa l’individuo e nel quale lui stesso compare e si mette in gioco
Caratteri filosofici, Cortina, 2011, p. 124
Nelle due conferenze del 1980 al Dartmouth College, il filosofo francese spiega, si può dire, al mondo la sua più recente attività filosofica, illustrando la propria posizione tra le correnti filosofiche del periodo, enunciando, essenzialmente, tre risultati del suo lavoro, che avranno una eco notevolissima sino ai nostri giorni.
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Foucault evidenzia, anzitutto, la necessità di una nuova filosofia critica, ma che abbia lo scopo teorico-pratico di rintracciare le condizioni e le «indefinite possibilità» pratiche che, storicamente, hanno condotto la soggettività ad intervenire in modo tecnico su di sé per trasformare sé stessa. É evidente che gli studi di Foucault non sono autoconclusivi e non esauriscono l’intera vicenda umana della produzione della soggettività, perché questa vicenda affonda le proprie radici ben prima della filosofia antica e non è ancora affatto conclusa. Gli studi di Foucault aprono, invece, una nuova via di ricerca filosofica sulla vita e sul mondo, fornendo materiale, contenuti, e metodo per una attività di ricerca ancora in corso. Ciò significa che la filosofia di Foucault è un’anticamera, un indispensabile lavoro preparatorio fondamentale per procedere nella comprensione della storia dell’etica e della vita occidentale, cioè della vita della soggettività nel plurimillenario raggio temporale della sua trasformazione.
1. Il dominio non è esaurito dalla coercizione
Queste scoperte portano a comprendere in modo più corretto le idee di Foucault sulla disciplina, che nel suo ormai celeberrimo Sorvegliare e Punire (oggi studiato anche nelle Facoltà di Giurisprudenza) non esitava nel vederne la trasformazione genealogica in dispositivo di controllo. In un passo della prima conferenza, Foucault compie una autocritica decisiva per comprendere ciò che si deve intendere per rapporti di potere:
Quando studiavo i manicomi, le prigioni e così via, ho insistito forse troppo sulle tecniche di dominio. […] non dobbiamo concepire l’esercizio del potere come pura violenza o ferrea coercizione: il potere consiste in relazioni complesse che comportano una serie di tecniche razionali, e l’efficienza di queste tecniche dipende da una sottile integrazione tra tecnologie di coercizione e tecnologie del sé.
Un commento pressoché analogo si ritrova nel corso del seminario tenuto da Foucault nel 1982 all’Università del Vermont. Il dominante non copre da solo, e in modo totalizzante, la funzione coercitiva del controllo, ma si basa largamente sull’altra metà del dominio, cioè il dominato, ovvero il sé individuale, che non è come un oggetto inerte, ma, appunto, una soggettività dinamica. Ciò rappresenta qualcosa che va oltre il couplage dominante-dominato, e cioè una serie di nessi tra governo di sé e degli altri, disciplina, stilistica dell’esistenza, regime di verità, e cultura di sé.
2. L’individuo umano è capace di modificare sé stesso
La prima scoperta, che Foucault illustra nella conferenza Subjectivity and Truth, è ormai attestata come oggettivo dato di fatto: le scuole filosofiche ellenistiche e latine non avevano come scopo principale l’indottrinamento di teorie o sistemi filosofici, ma quello di comportare una conversione nell’individuo che si mette a filosofare nel modo giusto; conversione che riguarda tutto il proprio essere e che lo fa vivere in modo diverso rispetto a prima in un senso migliorativo, cioè più sereno, maggiormente padrone di sé, quindi più felice degli altri. Stoicismo ed epicureismo questo insegnavano, anche se già, in un certo senso preliminare, anche la scuola socratico-platonica implicava la riuscita di questo risultato fondamentale sull’etica, sul pensiero, e sulla natura di chi iniziava a filosofare con loro. I filosofi, in queste scuole dell’antichità, non erano i grandi teoreti, capaci di intuizioni folgoranti, possessori della verità epistemologica, ma erano chi si comportava come la filosofia comanda, mentre “prima” ci si comportava in modo diverso (peggiore).
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La conversione ontologica di tutto l’essere del singolo soggetto, che la filosofia comportava in coloro i quali si mettevano a farla, era una precettistica, composta da un insieme di esercizi e logoi pratici, di tipo farmacologico, con cui gli individui riuscivano a modificare la propria anima, il proprio corpo, i propri pensieri. Queste pratiche erano tra le prime manifestazioni storiche di quelle che Foucault chiama “tecnologie del sé”. Nelle scuole filosofiche antiche ciascuna delle tecnologie del sé viene concepita come esercizio che appartiene al modo di vivere della cura di sé, una stilistica esistenziale che forma la vita e la persona. Sul fatto che questo comportamento sia pienamente riconosciuto dagli antichi come alla portata di tutti, Foucault è chiaro:
il fatto che i filosofi raccomandino di occuparsi di se stessi non significa che tale sollecitudine sia riservata a chi sceglie una vita simile alla loro; o che tale atteggiamento debba essere limitato al periodo in cui si coltivano studi filosofici. è un principio valido per tutti, continuamente e per l’arco intero della vita.
La cura di sé, Feltrinelli, 2019, p. 51
3. Esistono le tecnologie del sé
Questo dato fa comprendere a Foucault, e anche a noi, che il singolo soggetto umano è suscettibile ad essere modificato, cioè è aperto al cambiamento. Che, oltre alle tecniche produttive, linguistiche e di dominio, esiste un altro campo tecnico, quello delle tecnologie del sé.
Le tecnologie del sé sono pratiche culturali che hanno la capacità di modificare certi pensieri e certi comportamenti a loro volta culturali, in quanto anche essi frutto di una qualche educazione e di condizioni e fenomeni storico-sociali in cui i singoli individui sono cresciuti. Dunque, la conclusione che il soggetto sia «il correlato storico delle tecnologie che abbiamo costruito nella nostra storia» significa che le tecniche di sé hanno il potere di modificare le strutture sociopolitiche di fondo, il retroterra educativo e culturale in cui i singoli individui si formano, intervenendo sugli effetti di tali strutture generali direttamente a partire dall’essere dei singoli soggetti, cioè dai loro pensieri e dalla loro condotta.
Ciò che sembra decisivo da comprendere non è tanto che queste tecniche ci hanno condotto a poter comprendere il sé moderno e a conoscerne l’evoluzione, per poi finirla qui. Ma rendersi conto invece che il soggetto umano non è affatto finito, né ha raggiunto un limite oltre il quale non c’è più niente, bensì è ancora e sempre in fase di trasformazione, quindi di miglioramento. I processi di soggettivazione studiati da Foucault e i risultati teorici del suo lavoro, in altre parole, forniscono gli strumenti per abbattere lo stile di vita imprigionato in una morale cristallizzata, di un soggetto sclerotizzato in forme di condotta e in verità fisse immutabili (che Foucuault chiama regime di verità), e per riconoscere che il soggetto è un sostrato di modificazioni intrinseche ed estrinseche.
In queste tecniche di sé, esperienze di liberazione, centrale è una precisa concezione della verità. La verità non è intesa da Foucault in termini logico-conoscitivi, la verità pronunciata nel discorso vero o pensata nel ragionamento scientifico. Se il singolo soggetto ha la capacità tecnica di intervenire su sé stesso, di modificarsi, è proprio la verità ad essere il vettore di questo intervento, la matrice dell’azione che esplica le tecnologie del sé. Quindi non è la verità epistemologica, ma la non meno potente, salda e benefica verità su di sé ad essere intesa come forza attiva che insieme alla volontà personale consente a ciascun individuo di poter manipolare sé stesso e migliorarsi. Quella di Foucault è una concezione “edificante” della verità, il cui il prodotto non-concluso è, di volta in volta, il soggetto singolo. Il «conosci te stesso» diventa, quindi, un tipo di verità che non ha niente a che fare con la verità assoluta, certa, e irrefragabile, della scienza, bensì con una verità che mobilita l’azione del soggetto, la conoscenza della verità su di sé che è la prima cosa che ogni soggetto deve guadagnare per potersi prendere cura di sé e migliorarsi.
Dunque, la soggettività di cui si occupa Foucault non è la soggettività astratta e universale, il soggetto della scienza, bensì la soggettività personale di ciascuno. Ogni individuo può impiegare determinate tecniche per migliorare sé stesso a partire da sé stesso. Non si tratta del soggetto collettivo della sociologia, o del soggetto giuridico, né di condizioni storiche generali, e ancor meno del soggetto universale ed astratto. Invece, si tratta di condizioni particolari e specifiche, che costituiscono l’essere proprio di ciascun singolo soggetto, sulle quali egli stesso può intervenire in modo unico ed esclusivo per cambiare e migliorarsi. Le tecnologie del sé vengono attiviate, perciò, da un soggetto singolo che, in base a ciò che sa del proprio essere, può fare qualcosa per modificare il proprio sé e le proprie condizioni.
Foucault scopre che la soggettività personale di ciascuno non è solo e non è tanto una costruzione che scaturisce dai rapporti sociali o dalla temperie storico-politica del tempo in cui egli vive, dall’educazione che ha ricevuto, o dagli insegnamenti che ha ereditato. La posizione strutturalista per cui il soggetto è il prodotto dei fenomeni in cui concresce e sviluppa non è condivisa affatto da Foucault, proprio perché, se le cose stessero così, radicalmente non vi sarebbero delle effettive tecnologie del sé. La soggettività individuale è, invece, frutto di una auto-ri-creazione continua da parte dell’individuo stesso, in quanto ciascuno è dotato della capacità di operare su di sé, oltre i limiti del portato storico collettivo, al di là delle convenzioni e delle convinzioni date nel recinto del proprio corredo esistenziale, che abita. Ciascuno può, al contrario, attivare un cambiamento di sé, rompere radicalmente con il proprio vecchio sé stesso e con il proprio passato. In altre parole, Foucault mostra che il sé non è niente di definito e definitivo, ma qualcosa che, sebbene sia essenziale nell’individuo, è fluido e sempre suscettibile ad essere nuovamente plasmato.
Conclusione
In conclusione, almeno due insegnamenti si possono trarre dall’ultimo Foucault. Primo: la più grande libertà che possediamo è quella di non essere mai completamente finiti o definiti, e poterci, attraverso la nostra volontà e la nostra razionalità, rinnovare e reinventare. Secondo: l’incompletezza ontologica del nostro sviluppo storico (intellettuale, sociale, morale, politico, giuridico, economico) è a garanzia della decisione, sempre di nuovo prendibile, di distruggere e reinventare pratiche, modi di vivere, istituzioni, e idee, e ciò vale sia sul piano individuale che collettivo.
il nostro problema, oggi, e scoprire che il sé non è nient’altro che il correlato storico delle tecnologie che abbiamo costruito nella nostra storia. Forse il problema, oggi, è cambiare queste tecnologie, o sbarazzarcene, sbarazzandosi così del sacrificio ad esse connesso.
Sull’origine dell’ermeneutica del sé, Cronopio, 2012, p. 90
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